Ok, nel titolo volevo scrivere “Nel melting pop di Giuliano Vozella“, ma poi tutti avrebbero pensato che non so come si scrive “meltin’ pot” e ho corretto. Però è questo che il disco di Vozella Ordinary Miles propone: un pop che è frutto di una mescolanza tra radici jazz, un po’ di blues, due radici di country rock, una spolverata di folk.
Ci siamo fatti raccontare come nasce il suo disco (qui la nostra recensione), ed è emerso anche un rapporto speciale, con Juliet.
Questo è il tuo secondo disco: mi puoi raccontare quello che ti è successo fin qui e qual è stata l’atmosfera che ha accompagnato la realizzazione di “Ordinary Miles”?
Ordinary Miles è il mio secondo lavoro discografico e fino al giorno in cui sono iniziate le registrazioni ho cercato, scrutato, vissuto, tutte le situazioni che mi insegnavano qualcosa e che continuano a farlo: dalle quattro mura di casa al panorama del mare blu, al cielo pieno di colori. In modo da ricevere la giusta carica per iniziare.
A registrazioni iniziate al Four Walls Studio (https://www.facebook.com/fourwallstudiorecording), l’atmosfera era favolosa, proprio come speravo che fosse. Un gruppo di lavoro bellissimo, tanti amici musicisti che stimo moltissimo che mi hanno appoggiato e accompagnato nella produzione.
Proprio per questo motivo ho voluto pubblicare un video “Making of” (https://www.youtube.com/watch?v=0q34y5s-MBA) dove in 3 minuti circa abbiamo cercato di racchiudere vari momenti di vita in studio durante le recording.
Parliamo della copertina del disco: questo disegnare una strada (americana?) sul foglio, mentre si sta alla propria scrivania, vuole esprimere una specie di nostalgia per i panorami non italiani a cui la tua musica fa riferimento?
Proprio così, è una highway americana. Nel disco si parla di chilometri, di strade da percorrere, di obiettivi da raggiungere e non solo.
Per questo motivo il disegnare una strada su un foglio stando seduto davanti alla propria scrivania, rappresenta, la voglia di pianificare il tragitto (tenendo conto di tutti gli eventuali cambi di programma), portando assieme tutti gli elementi che personalmente penso non possano mancare nel mio viaggio: plettri, spartiti, macchina fotografica, matite, cavi, e per finire, una buona dose di caffè.
Per questo progetto grafico devo ringraziare Tommaso della Toshiro Productions (https://www.facebook.com/ToshiroProductions) che è stato capace di ascoltare il disco, e di elaborare un riassunto grafico delle mie note.
Accanto a brani quasi “pop”, nel disco non si perde un gusto della ricerca sonora che mi sembra discendere da un’educazione jazz. E’ stato difficile far convivere queste due sfere differenti?
In realtà è avvenuto e attualmente avviene in maniera del tutto naturale. Durante le registrazioni del disco ero impegnato a terminare gli studi del triennio accademico di chitarra jazz. Mi sono laureato a dicembre, subito dopo aver finito le registrazioni del disco. Non sbagli, quindi, nel dire che ci sono delle sfumature che provengono dal quel tipo di ascolto, più jazz.
Con questo però non voglio dire che la mia musica è jazz, ma neanche pop. In realtà non saprei proprio come classificarla. Sono fortemente convinto che la musica che ogni musicista elabora proviene dall’insieme di ciò ascolta, dalla memoria del proprio orecchio. Per questo motivo, personalmente, non saprei come classificare il mio genere: un melting pot di ascolti, che genera la mia musica.
Le canzoni del disco di rado superano i tre minuti, rispettando la lunghezza “classica” della canzone. E poi c’è “Juliet is here”, che si stacca completamente, sia per durata sia perché è un pezzo strumentale. Come nasce il brano?
La durata di 3 minuti media di ogni brano non è voluta, sembra strano, ma è così. Così come Juliet Is Here supera completamente lo standard del disco perché è un brano in cui io e la mia chitarra (Juliet), costruita dal liutaio Piero Pascale (https://www.facebook.com/pieropascaleguitars), comunichiamo.
Sono 9 minuti di un brano registrato “buona la prima” a luci spente nello studio. In realtà il brano parte circa al minuto 4.00, dall’esposizione del primo tema. Tutto quello che è avvenuto prima dei 4 minuti è completamente improvvisato, comunicazione tra me e la mia sei corde.
Ho voluto lasciarlo perché nasco come chitarrista e ogni cellula musicale esce prima da quel “pezzo di legno” per poi essere elaborato. Nello standard di un disco può risultare dannoso inserire un brano strumentale nel mezzo di una scaletta che si distacca da quel tipo di ascolto però, a me interessa che l’intero disco sia davvero il frutto di un mio discorso, e non di un discorso musicale costruito ad hoc, a tavolino.
Come nascono le numerose collaborazioni che figurano all’interno del disco?
Le collaborazioni nascono dall’amicizia, dalla condivisione. Tutti i musicisti che sono presenti nel disco sono tutti amici che stimo tantissimo, la cui musica mi piace particolarmente e che sono sinceri con il proprio strumento.
Dal primo disco a oggi tutti quei musicisti li ho conosciuti un po’ condividendo i palchi un po’ tra le mura del conservatorio dove ho studiato. Così, quando ascolto il disco, ogni elemento che arriva all’orecchio è carico di ricordi e di momenti belli condivisi grazie alla musica.