Con l’umile ma malcelata ambizione di fornire ai lettori di TRAKS qualcosa di “diverso”, che si possa leggere accanto, insieme, sopra e sotto la musica che accompagna le nostre giornate, questo agosto abbiamo deciso di proporre o riproporre alcuni articoli monografici che abbiamo scritto in passato, per lo più su altre testate, e che non volevamo andassero persi. Letture estive, ma anche per ogni stagione.

Manhattan, poco dopo la fine della seconda guerra mondiale. Nonostante le difficoltà post-belliche, l’America ha ricominciato a produrre e fare rumore, raccogliendo minori macerie rispetto all’Europa.

Per questo e per altri motivi del tutto personali François, attore con una carriera brillante in Francia, si è trasferito a New York. Ma è andato a sbattere contro il muro di una vita solitaria e sostanzialmente fallimentare. Tre camere a Manhattan parte da qui, da François che esce dal suo squallido appartamento per evitare di sentire i vicini che fanno sesso e litigano.

Il vagabondare nervoso di François trova però un punto di riferimento. Una donna, ovviamente. Catherine, o meglio Kay. Un idillio? Il contrario. La sfiducia, la gelosia, il rancore esplodono di pari passo con un sentimento forte e violento.

La voce interiore di François ci guida per i locali che la coppia inizia a frequentare in una notte che sembra interminabile. La voce interiore di François… a volte la rabbia interiore, la gelosia che gli fa salire il sangue agli occhi. C’è ira, rancore, scorno, tradimento e furia, in una crisi di nervi continua, in attesa di esplosione. Nell’alberghetto Lotus la coppia trascorre la prima notte.

C’è sempre qualcosa che rimane sospeso, all’interno del romanzo. François si dimentica la luce accesa, quando esce prima di incontrare per la prima volta Kay. Più tardi la trascinerà fuori, in preda a un attacco di rabbia insensata, mentre lei aveva i fornelli accesi.

A volte le parole rimangono sospese: François ascolta le parole di Kay per ore, prima di riuscire a comunicarle qualcosa di sé. E anche più avanti, sono in maggior numero le parole non pronunciate, sospese in attesa del momento giusto, rispetto a quelle che si dicono ad alta voce.

Kay e François hanno vite bombardate alle spalle, una patina di successo e prestigio, matrimoni apparentemente felici e vite di successo. Lei è moglie di un ambasciatore ungherese, ma è scappata con un gigolò, quasi dimenticandosi della figlia che avevano in comune. Vite esplose d’improvviso, tanto da finire in hotel sudici e in casette periferiche, in una città luminosa ma del tutto indifferente come New York.

Indifferente ma parte viva del romanzo. Il cinese che vende tartarughe, gli incontri vacui e fumosi nei bar, il sarto della finestra di fronte prendono forma e corpo e saltano fuori dalla pagina. Tutto questo in una peregrinazione mentale e fisica che spesso porta i due all’estenuazione, prima di rifugiarsi uno nelle braccia dell’altra. Oppure nelle braccia del whisky:

Adesso sapeva che a quell’ora finiva sempre così, che solo il whisky riusciva a tenerla su, e se la immaginava in altre notti, con altri uomini, mentre beveva per tener viva la propria eccitazione e intanto parlava senza fermarsi, con quella sua voce roca e struggente.

Kay e François si nascondono dentro il bicchiere, dentro il bar, dentro se stessi, temendo l’alba di giorni nuovi e spaventosi. La vita li ha colpiti, consumati e invecchiati senza pietà.

Una decina di volte François ripete che Kay “non è bella”. Non cerca una bellezza alternativa, non si racconta bugie da innamorato. La vede com’è, anche in modo spietato. Non è bella. Eppure non può fare a meno di lei.

Si considera Simenon “francese” quasi per abitudine, perché in Francia è nato Maigret, perché ha iniziato a lavorare a Parigi, perché lì ha ambientato molti romanzi, perché il francese è la lingua che ha utilizzato (anche se si vantava di averla sciupata poco: diceva di avere usato soltanto “2000 parole”, a sottolineare la semplicità del suo stile). 

In realtà nacque a Liegi, in Belgio, e morì in Svizzera, a Losanna, lontano dalla Quai des Orfèvres parigina così spesso citata e abitata dal suo Commissario. Tra Liegi e Losanna tantissimi viaggi, spostamenti, trentatré cambi di residenza in una vita mai stanca di cambiamenti, instabile per definizione, vorace e senza soste.

Una delle soste prolungate in questo peregrinare incessante è l’America. Non è proprio una scelta: alla fine della guerra in Francia scatta la caccia ai collaborazionisti. Georges e il fratello Christian sono accusati simpatie per gli ex occupanti.

La condotta di Georges durante la guerra era stata ambigua: qualcuno disse che era un collaborazionista, qualcuno che era sì un opportunista, ma senza commettere nulla di criminale, mentre la Gestapo sospettava di lui perché convinta che questo cognome “Simenon” fosse un po’ troppo simile all’ebraico “Simon”.

Simenon scappa negli Stati Uniti, mentre il fratello Christian, condannato a morte in contumacia, ripara, su consiglio di Georges, nella Legione straniera francese. Morirà in Indocina, nel 1947. La madre Henriette, con la quale Georges aveva un rapporto molto difficile, ne incolperà il figlio sopravvissuto.

Simenon arriva dunque a New York, il 5 ottobre 1945, con l’intenzione, poi mantenuta, di andare a vivere in Canada. Con lui, da un cargo svedese, sbarcano Tigy, la moglie, il figlio Marc, la domestica Boule, che è anche la sua amante. Già nel gennaio 1946 ha terminato di scrivere Tre camere a Manhattan, romanzo breve e turbolento, che fotografa una fase particolarmente agitata di una vita mai serena.

Simenon ha infatti conosciuto Denyse Ouimet che ne diventerà prima segretaria, poi seconda moglie e madre di tre figli (John, Marie-Jo e Pierre). È Denyse che si trasfigurerà in Kay, la protagonista del romanzo. Mentre Georges trasporrà le proprie ansie, l’angoscia, la gelosia, il furore e la passione nel personaggio di François.

Denyse Ouimet era canadese, di Ottawa. Incontrò Simenon il 5 novembre 1945 al ristorante Brussel’s di Manhattan. In teoria un colloquio di lavoro: lo scrittore cercava una segretaria che parlasse perfettamente inglese e francese e che ne assistesse l’attività frenetica.

Simenon, infatti, scriveva 80 pagine al giorno. Dove trovasse il tempo di farlo non è facilissimo capire, visto che giurò di aver amato ben 10.000 donne nella sua vita, ammettendo che almeno 8.000 di queste erano prostitute. Si dice che chi brucia in fretta, chi si consuma dietro ad attività incessanti, sia destinato a morire presto, a terminare subito le proprie energie. “La luce che arde col doppio di splendore brucia per metà tempo”, dice Tyrrell, il costruttore, al replicante Roy/Rutger Hauer, in Blade Runner.

E allora come si spiega che Simenon, bevitore pantagruelico, fumatore ostinato, amatore di proporzioni immani, sia vissuto fino a 86 anni, e proprio perché aveva incontrato un tumore più accanito di lui, capace di ucciderlo soltanto con una recidiva? Non si spiega.

Il pranzo di lavoro tra Georges e Denyse si trasforma in una passeggiata in Central Park, in un’escursione al Greenwich Village (sembra di vederli, come Suze Rotolo e Bob Dylan sulla copertina di The Freewheelin’ Bob Dylan, camminare a braccetto nelle strade newyorkesi). I due trascorrono la giornata di bar in bar, di club in club, a ballare sulle note di The Man I Love di Gershwin, fino a terminare la serata in un letto del Drake Hotel, molto più lussuoso del fetido Lotus al quale condanna i propri personaggi.

Kay e François non sono Romeo e Giulietta, non sono gli eroi giovani e belli di gucciniana memoria, sono due falliti che incrociano le strade e fanno un pezzo di strada insieme, persi nel bicchiere e nel fumo delle sigarette, a ricercare qualcosa che li salvi. Ma François si divora nella rabbia, nella gelosia delle vite precedenti di Kay, arriva a essere violento, a tradirla, a offenderla in modo selvaggio…

Vuole farle scontare i futuri probabili tradimenti, dettati da una vita fin qui non molto regolata, oppure vuole far pagare a lei, rappresentante del genere femminile, il tradimento che ha già subito, quello della moglie di lui, che lo ha lasciato per un uomo più giovane e che lo ha anche privato delle opportunità di carriera che aveva in patria?

Tutto insieme. E siccome un romanzo è un romanzo, François ha la possibilità di sbagliare ma anche di capire che soltanto quella è la sua occasione di riscatto. A prescindere da un lavoro in cui sembra che nessuno si ricordi più di lui e dai consigli “sensati” degli amici. Quando lo capirà, scoprirà che Kay era già arrivata fin lì, aveva già capito. Le donne capiscono sempre in anticipo.

La vita non è un romanzo. La vita felice di Georges e Denyse durò pochi anni, contò diversi tradimenti e una tragedia immane quando Mary-Jo, la seconda figlia, si tolse la vita. Denyse terminerà i propri giorni scrivendo memorie rancorose nei confronti del molto amato e poi odiato ex marito. Probabile che tutto quel rancore Simenon se lo fosse meritato in pieno.

Nella propria ultima intervista, condotta dal giornalista italiano Giulio Nascimbeni, Simenon dichiarò che lo sforzo di Maigret era “comprendere e non giudicare, perché ci sono soltanto vittime e non colpevoli”. Probabilmente l’epitaffio che avrebbe voluto apporre anche sulla propria vita.

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