Il mondo è perduto e non basterà un disco a salvarlo. Ma ci si può sempre provare: Songs of a Lost World è il nuovo album dei Cure, ed è una medicina per molte malattie. Primo lavoro in studio da sedici anni a questa parte, il disco si è fatto aspettare anche nelle ultime battute, visto che se ne parla dal tour dell’anno scorso in cui la band inglese ha fatto registrare novanta date in trentatré Paesi.
Songs of a Lost World è stato scritto e arrangiato da Robert Smith, prodotto e mixato da Robert Smith e Paul Corkett e cantato dai The Cure – Robert Smith: Voce / chitarra/ basso / tastiere, Simon Gallup: basso, Jason Cooper: batteria / percussioni, Roger O’Donnell: tastiera, Reeves Gabrels: chitarra. L’album è stato registrato ai Rockfield Studios. La cover ritrae una scultura del 1975 di Janes Pirnat, Bagatelle.
The Cure traccia per traccia
A inizio album sono collocate strategicamente le due canzoni che erano già state rese note al pubblico, non soltanto come singoli ma attraverso i concerti dell’ultimo tour, un assaggio di un pasto più corposo che ora ci prepariamo ad addentare.
E’ un modo “morbido” di introdurre musica nuova da parte di una band che sa bene come si prepara un ingresso: lo dimostra la lunghissima intro strumentale di Alone, che distende fiori, probabilmente morti, ai piedi di chi intraprende il cammino dell’ascoltatore.
Eppure è già tutto lì: in quasi sette minuti di canzone c’è già tutto quello che ci si aspetta da un disco dei Cure. La malinconia struggente, le chitarre, quel tanto di acido che va a contrastare le dolcezze. E quella voce, così impagabile e così trascinante, senza nemmeno il bisogno di alzare i toni: “But it all stops/and we close our eyes to sleep/to dream a boy and girl/who dream the world is/nothing but a dream“. Un sogno che sogna se stesso, giusto per partire.
E poi un memento, per ricordare che niente è per sempre: And Nothing is Forever fa alzare gli archi sopra al pianoforte, prima di introdurre qualche vibrazione che irrobustisce il corpo del suono. Anche qui l’introduzione si allarga, si allunga, amplia le proprie visioni prima che entri il cantato, che qui sembra più calmo, quasi tranquillizzante. “I know, I know/that my world is grown old“: anche se il mio mondo invecchia, anche se si muore, non importa, se tu sarai con me. Una promessa di vicinanza eterna quando si sa benissimo che di eterno non c’è niente.
E il pianoforte rimane lì anche per le battute introduttive di A Fragile Thing, che però lo contorna di altre armonie, di un basso che suona classico e sferzante, con una salita graduale di sensazioni. La canzone propone un dialogo in cui risuonano i rimproveri e gli ammonimenti di lei: “Nothing you can do but sing/this love is a fragile thing“. Non si può fare nient’altro che cantare, questo amore è qualcosa di così fragile che a toccarlo si rischia di spezzarlo.
C’è tempesta in Warsong, che si alza un po’ per volta a parlare di guerra e di speranze troncate che si sfaldano sotto i nostri occhi attoniti. Gli echi si allungano nel brano più breve del disco (sempre oltre i quattro minuti, intendiamoci) ma al centro non c’è l’attualità, bensì un rapporto conflittuale con una persona con cui il rapporto si rompe e si ricompone di volta in volta.
La battaglia, celebrata dalla batteria e dai synth, prosegue anche in Drone:Nodrone, che è ispirata dal volo di un drone davanti a casa Smith. Anche qui il discorso è un cattivo rapporto con il mondo di oggi, ma non è affrontato esattamente come lo farebbe il sessantacinquenne medio, a meno che non suoni la chitarra in modo dilaniante.
I Can Never Say Goodbye esplora altri concetti di congedo, anche qui concedendosi vastissime escursioni strumentali, che avvolgono, rassicurano e inquietano insieme: la canzone dedicata alla morte del fratello di Robert, Richard, e al fatto che il cantante non riuscisse a trovare le parole giuste per raccontare la propria tristezza e il proprio lutto, lasciando così alla musica la maggior parte dello spazio nel brano.
Più dinamica e incisiva All I Ever Am, che narra di tutte le difficoltà che si incontrano quando ci si rende conto di non essere più il ragazzo che si pensava di poter essere per sempre: “My weary dance with age/and resignation moves me slow/towards a dark and empty stage/where I can sing the world I know“. Tuttavia non è una canzone di rassegnazione: parole e musica combattono contro la nozione di invecchiare come lasciarsi andare a un fato inevitabile, e forse è giusto così.
Si chiude con Endsong, che prolunga la fascinazione di Smith per la parola “end” (come la canzone che chiudeva Wish, come The End of the World in The Cure): oltre dieci minuti di cavalcata elettrica e di flusso sentimentale irriducibile, che porta con sé miriadi di sogni spezzati e di speranze che non vedranno mai la luce.
Mi sono astenuto quasi per tutta la recensione dal sottolineare richiami e risonanze di altri dischi precedenti dei Cure, perché se è ovvio che ci sono echi di Disintegration, di Bloodflowers, di Wish (ma fatevi un favore e non andate a cercare una nuova Friday I’m in Love, perché non la troverete), è altrettanto ovvio che quando si arriva al quattordicesimo album qualche rimando e qualche autocitazione è inevitabile.
Peraltro, quello che piace (tantissimo) di questo disco non è tanto l’originalità o la possibilità di spiazzare completamente l’ascoltatore, che non sarà sorpreso da novità abbacinanti. Ma è l’integrità, la coerenza e la solidità assoluta di un lavoro che riesce ancora a commuovere e a smuovere qualcosa in fondo. E che lascia attoniti a constatare come la maturità, perfino la senilità, non abbiano portato via niente e anzi abbiano corroborato le certezze di una band che sembrava sapere come sarebbe andata a finire già decenni fa.
Così si ascolta e si ammira. Nonostante tutto, nonostante gli anni che passano, nonostante il dover fare i conti con una realtà che non è quella che vorremmo e con uno specchio che rimanda l’immagine di un tizio con dei capelli bianchi sempre più assurdi, quando nella testa c’è ancora quel ragazzo che non può piangere, perché i ragazzi non piangono.