Tiziano Mazzoni ha pubblicato Ferro e Carbone, terzo episodio di una carriera da cantautore che fa base su una serie di scelte sonore “classiche” (folk, blues e occasionalmente pop e rock con chitarra, violini, fiati, percussioni, mandolini, banjo) ma non per questo meno soggette a variabili. Lo abbiamo intervistato.
Quelli che ne sanno dicono che il terzo disco sia quello “decisivo” per una carriera. Come hai affrontato il lavoro su “Ferro e Carbone”?
Il mio primo lavoro, “Zaccaria per terra” (Horus Music, distribuzione Audioglobe), fu realizzato sull’onda dell’entusiasmo. Era il mio primo cd da autore, nato quasi “incidentalmente” grazie alla fortunata congiunzione tra un finanziamento della CNA di Pistoia e l’interesse di due amici, Raffaello Spiti e Luca Iozzelli, che prima mi convinsero a incidere brani miei e poi produssero il cd. La tracklist comprendeva canzoni che avevo scritto negli anni precedenti , un brano di Maurizio Ferretti (“Donna”) e una mia traduzione/adattamento di un brano di Woody Guthrie (“Deportee”). Il cd ottenne buone recensioni (la più prestigiosa quella di Gianni Zuretti su “Buscadero”) e un discreto risultato nelle vendite che mi spinsero a realizzare un nuovo lavoro.
Arriviamo così a “Goccia a goccia”, che venne pubblicato su etichetta ECCHER Music di Massimo Bubola, che ne curò la produzione artistica. Il cd venne distribuito da SELF, sempre con la produzione esecutiva di Raffaello Spiti e Luca Iozzelli, e con la preziosa collaborazione di Stefano Melone che curò gli arrangiamenti, il mixaggio e la masterizzazione. Il cd ottenne recensioni molto lusinghiere ma proprio quando stavo per dare inizio alla promozione ci furono avvenimenti importanti nella mia vita, che mi hanno segnarono profondamente e che per un certo periodo mi allontanarono dalla musica. La nascita di mio figlio Leonardo nel 2011 e la perdita di mio padre, Angiolo, nel 2012 (a lui è dedicato il brano “Qualunque nome dirai” in “Ferro e carbone”).
Quando ho ripreso la mia attività musicale mi sono chiesto se sarebbe valsa la pena proporre ancora materiale originale o se invece non fosse più appagante “mettersi comodi” su un bel repertorio di cover in stile “Americana”, dove il rischio al limite avrebbe potuto essere quello di non riprodurre certe atmosfere o non proporre arrangiamenti originali, ma non certo il valore dei brani. Avevo realizzato due cd che avevano ricevuto una buona critica, venduto quel che potevano e in qualche modo le mie soddisfazioni le avevo avute. Sai, il primo disco può andar bene per un colpo di fortuna, magari anche il secondo per una fortunata “congiunzione astrale” che ti porta a collaborare con un grande artista come Massimo Bubola, il cui nome ti aiuta comunque a ricevere una certa attenzione. Ma il terzo lavoro avrebbe dovuto confermare, approfondire e possibilmente andare oltre il limite dei precedenti. E onestamente non ero certo che avrei avuto né le idee né le carte in regola per riuscirci.
E poi una sera del settembre 2013, tornando in traghetto verso Piombino, mentre guardavo il mare scuro dopo il tramonto, mi sono trovato con un taccuino in mano a scrivere “Quattro barche”. E qualche tempo dopo i primi versi di “Piombino”, e poi ”La lucciola e il bambino” e via, via i brani che compongono “Ferro e carbone”: Insieme al mondo che cambiava intorno a me ero cambiato anch’io e dall’atmosfera introspettiva di “Goccia a goccia”, un lavoro pervaso da un vissuto personale e intimo, ero passato a una dimensione più corale e oggettiva, uno sguardo diverso sulle cose e sul mondo. Avevo qualcosa dentro che voleva uscire, avevo qualcosa da dire e avevo bisogno di farlo. Erano le mie storie, i miei ricordi, le mie emozioni. E “Ferro e carbone” è proprio fatto di storie, di personaggi, di situazioni che, eccetto “Qualunque nome dirai” e “Verde torrente”, anche se mi appartengono non ha mai una prospettiva o un punto di vista personale. E l’ho realizzato in autoproduzione, con i mezzi e i tempi che ho potuto permettermi, curandone la produzione artistica con il supporto di Gianfilippo Boni (che ha realizzato anche le riprese). Senza artifici. Nella semplicità delle strutture dei brani e nell’onestà dei testi. Alla fine, comunque fosse andata, sarei stato me stesso.
Questo per quanto riguarda la produzione esecutiva. Del fatto poi che “Ferro e carbone” abbia visto la luce devo ringraziare Appaloosa Records e IRD International Records Distribution che ne hanno curato la pubblicazione e la distribuzione, nonché il mio ufficio stampa Macramè – Trame comunicative che ne cura la promozione e la comunicazione.
Le canzoni di questo disco danno l’impressione di essere nate con calma. E’ così oppure è soltanto un’impressione?
Per ”Ferro e carbone” sono arrivato in studio (il “Paso Doble” di Gianfilippo Boni, a Bagno a Ripoli, Firenze) con alcune nuove canzoni, che avevo intenzione di registrare in versione acustica, e qualche brano inedito già registrato. In particolare 2 outtakes di “Goccia a goccia” (“Signorina”, realizzata con Riccardo Tesi, Ellade Bandini e Giorgio Cordini, ed una mia traduzione/adattamento di “Don’t think twice, it’s alright” di Dylan realizzata in versione bluegrass con il violinista Anchise Bolchi) e qualche demo (“Aprile”, “Accanto alla fontana”, “Verrà il tempo” e “Il vento del Blues”, quest’ultima registrata con il contrabbassista Andrea Marianelli).
Dopo le prime sessioni si è andata però sempre più delineando l’idea di un cd composto interamente da nuove composizioni, non necessariamente tutte in versione acustica. A quel punto ho avvertito la necessità di un lavoro di pre produzione, nel quale avrei potuto curare personalmente gli arrangiamenti e la produzione artistica. Per i quali ho potuto avvalermi anche della preziosa collaborazione di Gianfilippo Boni in veste non solo di fonico ma anche di produttore. E’ iniziata così la pre-produzione del cd nella quale, a parte l’utilizzo di campioni di batteria, ho suonato tutti gli altri strumenti (chitarra acustica, elettrica, armonica, mandolino, 5-strings banjo, basso, tastiere e sezioni di fiati campionate).
Con Gianfilippo abbiamo ideato e sperimentato molto, sia in termini di riprese che di suoni. A riprova del clima di grande creatività che regnava nello studio e che abbiamo condiviso con Gianfilippo, quasi in un’atmosfera di antica “bottega d’arte fiorentina”, sta il fatto che circa la metà dei brani sono stati sviluppati o addirittura composti lì. Una volta terminata la pre-produzione, il materiale registrato è stato inviato ai tre musicisti con i quali avevo deciso di costruire l’ossatura del cd: Pippo Guarnera (hammond), Lorenzo Forti (basso) e Fabrizio Morganti (batteria). Sono iniziate così le sessioni di registrazione ed è stata presto ultimata una prima stesura.
Su questa sono intervenuti successivamente gli ospiti che hanno aggiunto la propria parte (alcuni rifacendosi ai miei provini, altri sviluppando parti originali) e che hanno contribuito a caratterizzare i brani con i colori che sentivo più adatti. Sono poi arrivate le sessioni di registrazione delle voci dei vocalist (Silvia Conti, Mascia Anguillesi e Giulio Conte) e infine della mi. Anche se, per quanto mi riguarda, devo dire che per “Rita e l’Angelo” e “Verde torrente” con Gianfilippo Boni abbiamo scelto di tenere la voce originale dei provini perché, anche se con qualche imperfezione, ci emozionava di più. Se consideri che il CD è stato autoprodotto, capisci bene che ho dovuto distribuire nel tempo tutte queste attività per cui la gestazione è durata molto: in tutto 2 anni. E quindi, per rispondere alla tua domanda, le canzoni di “Ferro e carbone” sono nate con calma e ben meditate.
Come nasce “E’ una magia” e perché l’hai scelta come singolo?
“Una magia” è nata incidentalmente dal ricordo di una vicenda autobiografica che presentava innegabili aspetti “tragicomici” e che ho voluto raccontare in chiave ironica. Questo ha alleggerito il racconto e mi ha portato a cercare anche una “veste musicale” più consona alla canzone. Volevo un arrangiamento che mi divertisse e alla fine la scelta è caduta su un’ambientazione musicale caraibica dove le disavventure del protagonista vengono ironicamente “commentate” da un trombone a coulisse. È stato stimolante sperimentare un linguaggio diverso e anche molto divertente.
E siccome mio figlio di sei anni, appena l’ha ascoltata, l’ha subito canticchiata, mi sono reso conto che la canzone aveva una presa immediata e così l’ho scelta come primo singolo. Forse è un brano abbastanza atipico rispetto al resto del CD ma è anche vero che quella dell’ironia e del divertimento è una componente consistente della mia personalità alla quale ho avuto il piacere di dare spazio. Un’atmosfera che Chiara Carnovale, character animator, ha tradotto efficacemente in immagini nel lyric video.
Tiziano Mazzoni: opportune condizioni di ingaggio
Le tue “Silvano Fedi” e “Piombino” mi hanno fatto riflettere sul fatto che la critica mediamente spara sulla musica indipendente e fa di tutta l’erba un fascio. Ma poi i cantautori e i gruppi indipendenti sono gli unici o quasi che si ricordano le storie dei partigiani, che parlano dei rifugiati, che si accorgono che esiste un’attualità che va oltre il proprio piccolo cuore infranto. Tu come vedi questo dibattito?
Non conosco altra realtà se non quella dei cantautori e dei gruppi indipendenti. Non ho mai avuto esperienza di grandi produzioni, manager e agenzie di booking. E considerati i miei gusti musicali, i generi che “frequento” e la mia età, non credo che ne avrò. Ma è evidente che, sebbene la musica indipendente soffra della limitazione dei propri mezzi finanziari e degli spazi che può occupare, gode però di una piena autonomia sia stilistica che di contenuti. Tutt’altro discorso vale per produzioni che partono da indagini di mercato, analizzano le tendenze, costruiscono il personaggio, lo lanciano e lo spremono fino a quando rende. Sostenute da una critica che spesso si appiattisce alla convenienza di un assenso.
E’ vero che è il pubblico che sceglie, ma il pubblico sceglie tra i prodotti che gli vengono proposti, in un martellamento mediatico che avviene su canali dai quali le produzioni indipendenti sono escluse.
Puoi descrivere i tuoi concerti? Quali saranno le prossime date che ti vedranno coinvolto (solo se hai già delle date fissate prossimamente)?
Sono un autore ma anche un chitarrista, prevalentemente acustico ma anche elettrico. Anzi, nelle prime formazioni, prevalentemente blues, nelle quali ho “militato” in gioventù, il mio ruolo era quello della lead guitar. Suono anche mandolino, dobro e banjo per cui nei miei spettacoli, se sono solo o in duo, li alterno. Ovviamente non sempre tutti perché altrimenti ci vorrebbe un caravan per spostarsi!
Quando ci sono le “opportune condizioni di ingaggio”, cerco di proporre la Full Band che mi permette un maggiore impatto sui brani rock/blues e mi dà la possibilità di creare una maggiore varietà di atmosfere.
I miei prossimi appuntamenti saranno il 23 luglio al “Buscadero Day” a Pusiano e il 3 agosto al “Santomato Live” a Santomato (Pistoia). In entrambe le date sarò con la Full Band (Gianfilippo Boni al piano, Fabrizio Morganti alla batteria, Lorenzo Forti al basso, Pippo Guarnera all’hammond). Ci sono poi due date che si stanno concretizzando, una a inizio e l’altra a fine settembre, a Firenze
Puoi indicare tre brani, italiani o stranieri, che ti hanno influenzato particolarmente?
Like a Rolling Stone (Bob Dylan) Un colpo di rullante che sembra un calcio a una porta che si spalanca e poi il suono. Un suono che, come una ventata d’aria, spazza via il “pop rock” manieristico dei dieci anni precedenti e forse anche dei successivi e pone la “canzone” su tutt’altro livello. La base ritmica incalzante con il “levare” in evidenza, l’elettrica blues di Mike Bloomfield, l’hammond di Al Kooper e il piano di Paul Griffin, in stile “barrelhouse”, che lancia grappoli di note come lapilli sopra un fiume di lava.
E c’è dell’altro: c’è la canzone, le sue parole. Una storia d’amore o meglio di rancore, una chiave decisamente obliqua e originale di leggere questi sentimenti. E poi la voce di Dylan, che si snoda in un ritmo quasi “rappato” tra le rime baciate per poi aprirsi nel ritornello. C’è molto di quello che per me è il rock ma non solo. E’ una miscela di stili, quasi un compendio tra generi diversi che compongono la tradizione musicale americana. Un suono che ha ispirato molti artisti, da Van Morrison al primo Springsteen, che ne hanno replicato le soluzioni dell’arrangiamento senza però eguagliarne la capacità di sintesi. Per me è sempre stato ed è ancora un riferimento profondo.
Shelter from the storm (Bob Dylan) La semplicità di una chitarra acustica e di un basso elettrico che creano un’atmosfera musicale che per me è sempre stata estremamente evocativa. L’apparente immobilità dell’acustica in accordatura aperta, che rimanda quasi a un “pedale”, unito al movimento del basso che accentua le variazioni armoniche del brano, crea una tensione irresistibile. E al pari della musica, mi ha sempre affascinato anche il testo. Una storia che, come altri brani di Dylan, offre più livelli di lettura. Un continuo alternarsi tra riferimenti personali e citazioni dal Vecchio e dal Nuovo Testamento, dove una figura femminile diventa strumento di redenzione e salvezza a chiusura di ogni strofa.
Hawaii da Shangai (Bobo Rondelli) Avrei potuto citare molti altri brani dei cantautori italiani che più mi hanno influenzato, la cui influenza è peraltro molto riconoscibile nel mio stile. Ma per non correre il rischio di dimenticarmi qualcuno, insomma per non far torto a nessuno, preferisco citare il brano di un autore che, a mio parere, andrebbe annoverato tra i grandi. Sia per l’efficacia della sua scrittura che per i temi che tratta. Ci trovo il mio mondo, la Toscana popolare delle periferie, la nostalgia, la rabbia, l’ironia e lo sberleffo. La capacità di passare dal tragico al comico in un istante, che è tipica dei grandi. E che mi emoziona.