Poco porno e molta nostalgia: è un ritorno all’hip hop, ma anche al passato in senso pieno, quello che Willie Peyote ha pubblicato e che si trova in tutti i negozi tradizionali (in formato CD e LP) e negli store digitali. Pornostalgia (Virgin Records/Universal Music Italia) è il nuovo album del rapper torinese.
Pornostalgia, a partire dalla copertina del disco che nasce da una locandina di un film degli anni ’70, è la prosecuzione ma anche il contraltare di iodegradabile. In questi anni, in cui tutto si è fermato, ci siamo ritrovati a guardare indietro, vecchi film e libri, con nostalgia. È un momento in cui mi sembra che il concetto di nostalgia sia molto presente. Forse, avendo meno certezze sul futuro cerchiamo rassicurazioni dal passato.
Con una manciata di collaborazioni significative, non necessariamente pescate in ambito musicale, il disco si estende per tredici tracce in cui Willie si produce in un disco che può anche essere letto (e lo legge anche lui così, come ci ha spiegato in sede di intervista) come il negativo dell’ultimo Iodegradabile.
Willie Peyote traccia per traccia
Veleggia un UFO all’inizio dell’album, sopra uno stream of consciouness che parla principalmente del rapporto con il pubblico, ma lo sguardo di Willie è largo su tutta la realtà contemporanea. In realtà è questo il pezzo più “politico” (e sociologico) del disco, viaggiando tra greenwashing e infodemia.
Arriva poi la già nota Fare schifo, con gli interventi della stand up comedian Michela Giraud. “Questa giostra vuole il sangue per girare/quindi fare schifo è un dovere morale”: ansia e “resilienza”, l’abituale obiettivo polemico degli infuencer, il peso della costante autopromozione si scontrano con un’esigenza che è soprattutto quella della libertà di essere quello che si vuole, senza rincorrere per forza le aspettative degli altri.
La colpa al vento, con l’intervento elettronico di Godblesscomputers, inizia a rivolgere lo sguardo all’interno: la relazione (lo ha spiegato Willie nelle interviste) è la stessa che era iniziata al quinto piano tra Trento e Trieste ne La tua futura ex moglie. Una relazione che era “il nostro biglietto della Lotteria/e con un soffio ti è volata via”. Serve capire di chi è la colpa? Fino a un certo punto. Quindi tanto vale dare la colpa al vento e passare oltre (forse).
Il disco, quasi a livello programmatico, è un “ritorno” all’hip hop pienamente detto, e All you can hit è probabilmente il brano più hip hop del disco: fitto di barre e con una specie di dissing con qualche collega più giovane, con un approccio quasi alla Salmo qui e là, e con un parere abbastanza tagliente e definitivo su un eventuale ritorno rapido a Sanremo. Si rallenta un po’ con Prima, che si riversa più dalla parte morbida, forse anche un po’ fatalista, con un po’ di soul e funk sullo sfondo, bassi e fiati compresi.
Metafore calcistiche per illustrare le difficoltà di una relazione all’interno di La felicità è un furto: “io cercavo solo un complice/e va be’ scusa il disturbo”. Le debolezze e le sensibilità di fondo vengono tutte a galla, anche se ormai sembra tardi: fare lo strafottente ha pagato nell’approccio, ma in amore vince chi fugge, e Willie non sembra essere uno che abbia vinto, in questo caso. A completare i concetti interviene Emanuela Fanelli con il Risarcimento skit, che passa da Platone alla festa del grano di Rapagnano del 2011, tra approcci che portano all'(auto)esplosione, e da Tarantino a Buzzati. Ma alla fine che cos’è la felicità?
C’è Samuel a fornire qualche colore in più alla piuttosto notturna Diventare grandi, canzone di ripensamento e nostalgia, anche se a volte si fa fatica a capire nostalgia di che cosa. “Le domande sono tutto ciò che ho”, sussurra il cantante dei Subsonica, mentre la musica avvolge senza consolare.
“I soldi mi fanno un po’ schifo sul serio/però perché lasciarli a voi?”: il vil denaro è al centro della riflessione, piuttosto animata invero, che ospita anche Jake la Furia e il sempre calmissimo Speranza ne I soldi non esistono. Il confronto tra le voci viaggia veloce in un pezzo molto denso di concetti quanto capace di collocarsi nell’empireo delle hit firmate Peyote.
C’è un po’ di reggae, qualche fiato sudamericano, ne La casa dei fantasmi, tra pigrizia, fastidio, un po’ di disperazione che si convogliano nella fine dell’ennesima storia. “Se sapessi cosa dire/comunque non te lo direi”: ogni volta che finisce ci si trova ancora più indietro nella strada, con minore voglia di ripartire per chissà quali magnifiche sorti e progressive.
Bolle e sale fumatori nel mondo su misura di Hikikomori, che in realtà punta il dito sul fatto che forse c’è da avere più paura di quello che succede dentro casa, rispetto a quello che rimane fuori. Le frasi chiave tipo “chissà cosa ci mettono dentro” finiscono nel ritratto di chi si costruisce una gabbia da cui poi non riesce più a uscire, nemmeno e soprattutto con la testa.
Ancora rapporti difficili con la fama quelli che emergono da Robespierre, aggressiva anche nel ritornello cantato da Aimone e dai suoi fidi Fast Animals and Slow Kids. “Io ho troppa personalità/non mi serve anche un personaggio”: Willie racconta i no che ha detto (a pubblicità e talent show) e lascia la pistola in mano a Universal, che quando si sarà stufata di lui potrà premere il grilletto. Ma “non sono il portavoce di nessuno tranne me/fino a che/toccherà anche a me/come Robespierre”. La rivoluzione prima o poi si mangia i rivoluzionari.
E si chiude con Sempre lo stesso film: le luci calano, si beve al solito bar, ci si confronta con gli amici e con i propri fallimenti, che sono gli stessi di tutti. Non sembra risollevarsi il morale anche quando invece si elencano i successi, perché “In fondo non me l’aspettavo, faccio quello che sognavo, mi danno uno sproposito e mi dicono anche bravo (bravo non vuol dire un cazzo)“. E quindi si tira avanti chiedendosi mille volte perché, cercando di capire che “essere forti non vuol dire non sentire dolore ma conviverci e uscirne migliore”. Ma poi alla fine si capisce il succo della storia, quando Willie canta con voce commossa di lei, che non vede più dagli Europei ma con la quale, chissà, forse è rimasta ancora qualche speranza.
Guardava avanti, Willie Peyote, nell’autunno del 2019, quando presentava a Milano, in zona Gae Aulenti, Iodegradabile. Anche con una certa ansia verso il futuro, con il classico nichilismo e con molte domande, il rapper torinese guardava in avanti, con quel suo modo un po’ spiritato e molto provocatorio.
Poi si è bloccato tutto. Che poi in realtà non si è bloccato niente perché le nostre teste hanno continuato a viaggiare alla stessa velocità, e infatti la sua ha elaborato i concetti di Pornostalgia con lo stesso passo e frequenza. Ma è chiaro che l’atteggiamento è cambiato, sono successe molte cose, c’è stato il passaggio fulmineo ma segnante di Sanremo e del conseguente incremento della fama. C’è stato perfino un libro con Civati, per dire.
Il risultato è un disco che guarda al passato fin da titolo e copertina, con la ben nota capacità di analisi applicata indietro e dentro, tanto quanto nel disco precedente lo sguardo era rivolto avanti e fuori. Ne esce un risultato spesso sorprendente, molto più intimo, problematico e vero, forse perfino oltre le intenzioni iniziali.
Certo ci sono le hit e le sparate, c’è la politica e ci sono gli interrogativi, c’è il dubbio imperante. Ma così come non è un caso che sia UFO con le sue considerazioni sul presente ad aprire il disco, altrettanto non è un caso che si chiuda con tutte le tristezze di Sempre lo stesso film: per quanto in alto tu possa volare, alla fine è l’amore che dà un senso al tutto. Che, detto da un cinico, nichilista, realista/pessimista (e per di più tifoso del Toro) fa sempre un certo effetto.
Genere musicale: hip hop
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