In un delicato momento di trasformazione della civiltà e della quotidianità, vede la luce l’album d’esordio del duo fiorentino Cartagine: dopo l’attenzione ottenuta dal lancio dei primi tre singoli, Molotov conflagra definitivamente sulla scena indipendente italiana.
Vorrei partire dalla vostra storia: come nascono i Cartagine? E perché vi siete scelti un nome così “storico”?
Cartagine nasce nel 2019, con la scrittura dei primi brani, l’inizio delle prove e qualche concerto. Il nome nasce da un aneddoto simpatico: nel piccolo paese in cui abitiamo c’è un ponte in cui si racconta sia passato Annibale con gli elefanti durante le guerre puniche tra Roma e Cartagine. Luogo dal quale ho molti ricordi di infanzia, da qui Cartagine.
Come siete arrivati a questo esordio? Disco composto un po’ per volta o canzoni arrivate tutte nell’ultimo periodo?
Il disco è stato scritto e prodotto tra i mesi di luglio e agosto del 2019, poiché volevamo creare un progetto che nascesse da un flusso di pensieri continuo, in modo da avere filo conduttore tra le canzoni. Successivamente ci siamo occupati della promozione dell’album e alle relative tempistiche che questa comporta.
Mi incuriosisce molto “Neon”. Vorrei sapere come nasce.
“Neon” è l’unica canzone che parla principalmente di amore all’interno del disco. Tuttavia è un amore che viene presentato agli occhi dell’ascoltatore in modo molto più crudo e realista rispetto a quello a cui siamo abituati. Un amore che accetta le debolezze, le metabolizza e le rende i propri punti di forza.
Chi sono i vostri punti di riferimento musicali?
Siamo nati e cresciuti con la musica indie-rock internazionale degli Strokes, Arctic Monkeys, Killers e molti altri. Tuttavia abbiamo cercato di coniugare questo nostro background con le influenze moderne che più amiamo provenienti dal mondo della Trap e del Pop.
Di solito chiediamo qualcosa sul futuro, che si tratti di tour o di progetti. Tutte prospettive molto più difficili ora. Ma se doveste prevedere come saranno messi i Cartagine da qui a un anno, che ipotesi fareste?
Da qui a un anno avremo sicuramente prodotto e pubblicato nuovo materiale per non interrompere quanto di buono costruito fino a ora. La speranza più grande è sicuramente quella di tornare il prima possibile a calcare palchi, che è la prima ragione per cui amiamo ciò che facciamo.
Cartagine traccia per traccia
Si parte rock: El Barto decolla in fretta e in modo molto elettrico, tanto che si potrebbe pensare di trovarsi in mezzo a un disco indie rock generazione 2020 (non è proprio così).
Già con Stuntman si passa a sonorità più contemporanee, con un carpiato che pur non rinunciando del tutto alle chitarre infittisce le rime e si fa decisamente più urban.
C’è un certo romanticismo in Los Angeles, che è poco americana e un poco languida, almeno paragonata ai brani precedenti.
“E meno male che c’è Instagram a ricordarmi/la vita di successo che avete tutti quanti”: ci sono sogni infranti e un certo rancore tra i rimbalzi delle ritmiche di American Dream.
Si parla di eroi e di vodka in Guitar Hero, che ha modi e ritmi contaminati con la techno, ma anche un forte senso di punk sullo sfondo.
Rimbalza (male) Pusher, oscura e distorta, che parla di droga (ma anche tutte le altre canzoni del disco) e di non amore, con modi ambigui ed elettronici.
Ballata estremamente malinconica e piuttosto rancorosa Playback, che parla di haters, chitarre scordate e scarpe rinforzate.
Difficoltà di scrittura ed economiche in una piuttosto sofferta RIP, canzone sostanzalmente post mortem. Rimbalzi e mazzate all’interno di Neon, che racconta di una relazione che sfocia in una battaglia elettronica, parlando di anarchia e coltelli.
Il disco si chiude con Outro, che a dispetto del titolo è un brano vero e proprio, non dissimile dal mood arrabbiato e contrastato che domina il disco.
Ed è appunto questa la forza dell’album d’esordio dei Cartagine: la capacità di convogliare tutta una serie di sentimenti negativi in canzoni che graffiano e lasciano segni, ma aiutano anche a sentirsi meglio.