Testo e foto di Fabio Alcini

C’è una geografia alla base di ogni storia, ed è da lì che bisogna partire nel raccontare Antonio Diodato, cantautore noto soprattutto con il suo cognome (forse per evitare che sia confuso con “Deodato” il che, come racconterà, è un classico), che occupa la sedia principale di questa serata al PeM! Parole & Musica in Monferrato.

Intervistato dal direttore artistico Enrico Deregibus, Diodato appare rilassato di fronte a un buon pubblico riunito nei giardini di Villa Genova, nella frazione Fosseto di San Salvatore Monferrato.

Si diceva della geografia ed è da lì che si parte, parlando di città. Per esempio Aosta, dove è nato per coincidenza, ma dove non è mai tornato: “So che ci andrò suonando”, confessa, raccontando di fan che gli mandano foto del luogo che riconosce soltanto grazie a Google.

Poi Stoccolma e le esperienze con un amici che fanno musica molto lontana dalla sua, quegli Swedish House Mafia che però gli hanno insegnato l’attenzione maniacale al suono. Quindi Taranto, città d’elezione ma anche di condivisione dei problemi, in una città bella e non troppo fortunata.

La condivisione arriva fino alla direzione, insieme a Roy Paci e Michele Riondino, del festival del Primo Maggio, a partire dal 2013, che è anche incidentalmente l’anno del primo album di Diodato. La manifestazione è diventata un grande megafono per i problemi della città e per la chiusura delle fonti inquinanti (che poi si chiamano principalmente Ilva).

Ma il festival, racconta, è diventato anche un volano turistico notevole, tanto che quando è saltato per un anno per coincidenza con le elezioni amministrative ci sono stati attacchi da più parti, magari da quegli stessi che avevano rifiutato un aiuto nei primi e difficili tempi.

Diodato: Angelo Mai, “Anni felici”, Sanremo

Tempo di musica, però: Cosa siamo diventati, title track dell’ultimo disco, arriva presto e regala intensità di alto livello. La nudità dell’impianto, davvero voce e chitarra acustica, regala tutta la potenza, perfino insospettata, sia della canzone sia della vocalità di Diodato.

L’atmosfera è davvero insolita, fra questi alberi: oltre alla canzone, c’è giusto qualche cane che abbaia lontano, a qualche collina più in là, in una situazione che è molto difficile riprodurre in qualunque altro tipo di concerto.

Si torna a parlare, fra ricordi di scuola, difficoltà con l’inglese superate cantando. E poi Roma e l’esperienza dell’Angelo Mai, fuori dalla logica del “quanta gente mi porti”. Quindi l’incontro con Daniele Tortora, produttore ma soprattutto compagno delle prime avventure nel mistico mondo della discografia, tra porte in faccia e le prime timide affermazioni.

Come quando il regista Daniele Luchetti lo chiama per dirgli che metterà una sua canzone sui titoli di coda del suo film Anni Felici. Ma la canzone non è sua, è la cover di Amore che vieni, amore che vai di De André. Diodato racconta i suoi pensieri dell’epoca: “Ah! Palo!”

Si torna a cantare e si tratta di Ubriaco, che acquista quasi la veste dello stornello, con la voce che emerge in modo graduale, questa volta.

Nella conversazione si racconta poi del Dams, fatto e finito più per i genitori che per sé, e quindi di Sanremo. “Tutti quelli che ti hanno sempre guardato come il poverino che non lavora finalmente ti dicono che fai il cantante“.

Al netto di qualche problema di insetti sul palco, si racconta poi l’esperienza da Fazio con le cover in piazza di classici italiani anni Sessanta, preludio di quello che sarà poi il secondo album, A ritrovar bellezza.

Quindi il disco del 2017, Cosa siamo diventati, ultimo lavoro registrato a casa di Renzo Arbore sulla Cassia, quasi un “museo Arbore” con venticinquemila vinili.

Tra i brani del disco c’è Di questa felicità, perfezionata proprio con il piano di casa Arbore, che in questa veste svestita porta alla luce tutte le proprie sfumature, dal pianissimo al forte.

E mentre loda l’importanza del produttore trova modo di elogiare, anche su sollecitazione di Deregibus, un collega come Giovanni Truppi: si capisce della sincerità dell’elogio perché è capace di un collega (concorrente? lui no, ma qualcuno lo potrebbe pensare) per cinque minuti buoni, e sempre in modo positivo.

Su richiesta del pubblico ecco Babilonia, inizio sommesso e crescita costante, fino a incantare.

Invece è una scelta autonoma proporre la suddetta cover di Amore che vieni, amore che vai (“Devo tanto a questa canzone”).

Qualche domanda arriva anche dal pubblico: c’è chi è curioso di sapere della nascita di Adesso, e ne ottiene il racconto di una notte di luna e di portoni a Milano, con il testo e con la frase iniziale che arriva prima della musica (“E’ importante ricordarsi come nascono le canzoni”).

E così con l’aiuto di Lucky, la chitarra che sul fianco ha incisa proprio la parola “Adesso”, arriva proprio il brano portato a Sanremo in compagnia di Roy Paci, a chiudere una serata del tutto appagante e in qualche modo rivelatoria.

Diodato: l’intervista di  TRAKS

TRAKS, media partner di PeM!, non si lascia sfuggire l’occasione di due chiacchiere a quattr’occhi con Diodato. Che è persona facile alla chiacchiera e al sorriso, affabile quasi quanto le sue camicie fantasia, con una voglia di comunicare che, in tutta evidenza, non si interrompe una volta posata la chitarra.

Aosta, Taranto, Stoccolma, Roma: sei forse più “global” che “local”. Ma che cosa pensi di una manifestazione così legata al territorio come il PeM! ?

Penso che dovremmo riempire l’Italia di manifestazioni così. E’ un modo per riscoprire bellezza, per riconnettere anche i più giovani alle radici della propria terra. E’ normale che uno che nasce in un paesino non veda l’ora di andare via, nella grande città, fare delle esperienze. Però tante volte in quella fuga cieca non si ricorda neanche cosa si è lasciato.

Manifestazioni come queste in un Paese come il nostro, come l’Italia in cui la cultura è legata all’agricoltura e alla terra, proprio in senso fisico è fondamentale. Anche l’arte che si trova in paesini è importante riscoprirla, tutelarla, valorizzarla. Ben vengano manifestazioni così.

Sei alla fine del tour. Che cosa hai imparato di nuovo durante queste date?

Ho scoperto che mi diverto un sacco! Mi sono sempre sentito abbastanza a mio agio sul palco, sempre stata un po’ casa, però in questo tour è venuto fuori anche un po’ di più il mio lato più estroso e divertente. Sarà che ho scritto un pezzo che in qualche modo dice “Devi goderti il momento che stai vivendo”, ed è la cosa che cerco di fare quando salgo sul palco.

E’ bruttissimo scendere da un palco e pensare che hai perso un’occasione. Che potevi divertirti, scambiare qualcosa con le persone che sono venute e invece l’hai lasciato passare così come un “lavoretto” da fare. Questa è una delle cose che spero non mi capiti più, perché magari mi è successo in passato.

Sono molto contento di questo tour, io sinceramente spero di non stare fermo tanto perché è la dimensione in cui tutto ritrova un senso.

Sei il tipo del “finalmente mi riposo” oppure l’angoscia per quello che ora succede?

No no, ho l’ansia… Il modo di lavorare che ho attuato negli ultimi mesi mi ha aiutato tanto perché non ho ragionato su un disco. Tutti mi hanno detto: “Sei andato a Sanremo senza disco, ma sei un pazzo!”. Ma già Cretino che sei era un modo di dare uno schiaffo, di mostrare anche il mio lato cinico. E mi ha offerto una via alternativa, un passo alla volta, un singolo alla volta. Ed essere costantemente in giro, suonare, poi tornare in studio a registrare, cercare di non fermarsi mai. Essere un fiume che scorre.

Mi piace, ora magari è arrivato il momento di chiudere tutto all’interno di un album. Mi fermerò spero qualche mese per poi ripartire con cose nuove. Ma già adesso vorrei far uscire qualcosa di nuovo e continuare con questi brani che sono dei passi, senza un traguardo obbligato ma come un percorso che continua. Spero che arrivi almeno a settant’anni. Barba lunga bianca e chitarra.

Essere semplice (che poi nel tuo nuovo singolo in realtà è essere complicato): da dove nasce l’esigenza?

Ci sono momenti forti che ti mettono spalle al muro. Davanti a tutte le decisioni, gli atteggiamenti che hai avuto nella vita anche nei confronti di te stesso. Allora ho cominciato a ragionare e ne è venuta fuori una confessione dell’animo. Di quella persona che sono da tantissimi anni. Uno che si è sabotato tantissimo, che si è messo il bastone tra le ruote perché insicuro, perché aveva paura di essere in qualche modo deriso, non capito.

Le canzoni servono anche per liberarsi. E’ come quando sei in ua famiglia e ci sono cose taciute che creano tensioni. E poi un giorno decidi di affrontare quella cosa lì, e si crea una tempesta, però poi in qualche modo anche quella cosa lì diventa parte dei rapporti che hai e anzi in qualche modo può arricchire ancor di più quei rapporti.

E’ un po’ quello che mi è successo: ho pensato fosse il momento di provare a raccontare questa cosa prima di tutto a me stesso. Di dire: sei così, va bene, pazienza. Accettiamolo, “conosci il tuo nemico”, sai chi è, sai come si chiama e puoi affrontarlo anche meglio.

Riguardo all’album prossimo, immagino ci sia ancora molto da scrivere…

In realtà sulla scrittura è già abbastanza avanti…

Allora qualche caratteristica che avrà di sicuro, in particolare se marcatamente diverse dall’album precedente.

Cosa siamo diventati era più un condensato improntato a una storia vissuta e sullo scambio che ho avuto con un’altra persona. Su ciò che quella vita lì mi ha ispirato.

Ma al centro della mia riflessione c’è sempre la vita. Lo notavo scrivendo: è una parola che torna sempre perché al centro della mia analisi c’è l’essere umano che vive la vita di tutti i giorni, che prova sensazioni, che rimpiange, che si fa domande allo specchio.

E’ sempre quello il fulcro e credo sarà sempre così. Credo sarà un album eterogeneo anche questo, come mi è sempre capitato di fare. Sono cresciuto con un grande esempio, quello dei Beatles, che erano musicisti felici di fare musica, però avevano questa gioia fanciullesca della scrittura.

Non voglio porre limiti. Il filo che lega sempre tutte le canzoni è non porre limiti espressivi e anche di genere. Anche nell’album precedente passo dalle ballad romantiche al brano hard rock.

Chi ascolta per la prima volta le mie canzoni può avere qualche perplessità. Penso che anzi sia qualcosa che mi abbia anche penalizzato. Non sono esattamente ripetitivo, sempre uguale ma riconoscibile. Sono sempre una via di mezzo, uno che ama dal rap al jazz.

Il primo album si chiamava Forse sono pazzo anche per quello, perché aveva dentro tutti i mondi in cui mi piace viaggiare.

Non hai fatto centomila collaborazioni, al contrario di altri tuoi contemporanei. Ma quelle che hai portato a termine sono state significative. Un nome di qualcuno con cui vorresti collaborare in futuro?

Non so mai rispondere a questa domanda! Veramente non ho un grande desiderio, mi piacerebbe essere coinvolto anche da artisti molto distanti da me. Da un rapper, che so. Anche perché sono cresciuto con il rap, facevo il free style con gli amici, anche se poi ho capito che magari potevo fare di meglio…

Però ascolto con attenzione tutto quello che succede, anche con la trap…

Be’ a Sanremo ti sei portato Ghemon, che fra l’altro sarà al PeM! giusto domani…

Esatto. Poi di Ghemon mi affascina un percorso molto simile al mio. Siamo molto simili, ogni tanto questa cosa mi impressiono. Ho letto il suo libro e ogni tanto gli scrivevo: “Ma io questa frase la dico continuamente”.

Ed è interessante il percorso che ha fatto: anche lui aveva una strada ben definita che oggi oltretutto funziona tantissimo, e invece ha scelto un’altra strada, pensando semplicemente a godere di quello che faceva. Anche andando a restringere il suo pubblico: ci saranno milioni di ragazzini che ascoltano il rap, sono molti di meno quelli che ascoltano quella commistione che ha creato lui con il soul e l’R&B.

Quando penso a qualcuno non mi viene in mente un nome preciso, se non grandi stelle internazionali di cui è inutile fare il nome. Ho scoperto che mi piacerebbe essere portato altrove. Quando poi ti sollevano dalla responsabilità del protagonismo ti diverti un sacco.

Quando Boosta mi ha mandato il suo brano mi sono divertito tantissimo. Mi ricordo una volta che Sebastian Ingrosso degli Swedish House Mafia mi ha dato un cd con delle basi che avevano registrato, che erano delle bombe dance incredibili mi sono divertito come un pazzo. In una settimana ho scritto cinque brani su quelle basi lì…

Insomma spero di divertirmi. La vita è già un casino, la musica serve per mettere a fuoco determinate cose, soprattutto me stesso.

Sanremo: due presenze sul palco. Che esperienza è?

La vivo con tranquillità perché non vado mai a fare la gara. Vado a competere con me stesso, ci tengo ad andare lì e fare bene. Riuscire a superare il filtro televisivo che crea difficoltà che possono dare di te un’immagine diversa.

Mi è successo di persone che sono venute ai miei concerti e mi hanno detto: “Avevo immaginato un altro mondo dopo averti visto a Sanremo”. Mi sono sempre divertito tanto, tranne le prime sere che sono di una tale tensione da stare male.

Poi però mi rilasso e mi dico: “Lo posso fare”. Sono sempre andato con brani difficili da cantare, Babilonia e Adesso, però non pongo limiti neanche da quel punto di vista.

Con le cover invece hai “dato” parecchio… Una canzone di un tuo contemporaneo che ti vedi addosso e che vorresti proporre?

Be’ un pezzo degli Afterhours lo farei sicuramente, Padania, Quello che non c’è non lo nomino neanche, Costruire per distruggere che è attualissimo… Di qualcuno più giovane mi viene in mente Salmo, 1984 mi piacerebbe però è difficile farla se non rappata…

 

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