E’ difficile, per chi scrive, non guardare al nuovo disco di Edda, al secolo Stefano Rampoldi, con un certo affetto. Si chiama Fru fru ed è il successore di Graziosa utopia, che era piaciuto molto alla critica.
Conservando memorie dei tempi in cui, capello lungo e fluente, problemi di droga vastamente ammessi e influenze hardcore, era il frontman dei Ritmo Tribale, si guarda ancora con un certo stupore alle varie metamorfosi che ha realizzato.
Ma ormai la produzione cantautorale (anche se a quanto pare non ama molto questo tipo di terminologia) di Edda è decisamente consolidata e lo ha reso una delle voci più originali del panorama italiano.
Nove le canzoni del nuovo disco, contrassegnato da testi senza dubbio provocatori e originali, ma che una volta scavato un po’ sotto la superficie rivela una sensibilità che non si trova proprio tutti i giorni.
Edda traccia per traccia
Si parte da E se, già presentata come singolo: il contorno si dibatte tra rock, pop, funk e disco, mentre i temi espressi dal testo iniziano già a instradarsi su una serie di tabù, soprattutto sessuali, dei quali Edda farà il possibile per strabattersene per tutto il disco.
Movimentata anche The soldati (qualche vaga allusione a ben noto gruppi indie pop con il The nel nome? Mah) con qualche altra dose di funky, e la vocalità di Edda più sussurrata e tagliente che urlata, con allusioni all’antica naja (do you remember: “Uomini/se io vi guardo/nasce lo spavento?”). La frase chiave sembra essere un tantino abrasiva: “Non c’è molta distinzione/tra un cantante ed un coglione”.
Italia Gay in realtà parte da una serie di apprezzamenti evidentemente orientati da un uomo a una donna (tipo “Hai un bel culo e te lo dicono tutti”). Poi ecco una citazione da un classico della musica italiana come “Un’ora sola ti vorrei” che si oppone al desiderio “vorrei che l’Italia fosse tutta gay” (anche se ha spiegato che intende “gay” come “felice”.
Si abbassano un po’ i toni in Edda, che in realtà è autobiografica soltanto parzialmente, visto che è dedicata alla madre. Si recupera in termini di ritmo con Vela bianca, che vive di contrasti (tipo: “tu mi piaci da morire/però mi rigurgiti”).
Altra citazione, stavolta sonora, da My Way, in principio a Vanità, che diventa una sorta di rock’n’roll un po’ vintage e sboccato, un po’ come il resto del disco.
Samsara manifesta qualche nostalgia orientale di vecchia data, tra sesso e coca, con curiose evocazioni di santi e ancor più curiosi riccioli canori. Edda, qui e in altri episodi del disco (e della sua carriera), canta in prima persona al femminile, parlando di taglie di reggiseno, quindi offrendo un corpo effettivo alla sensazione e accentuando i sensi di spaesamento.
Si prosegue con il demi-dance di Abat-jour, forse la più ricca e la più tortuosa a livello sonoro, in un disco comunque ottimamente arrangiato.
Ovidio e Orazio esprime, per così dire, un certo dissenso nei confronti della poesia classica, proseguendo nel suo racconto al femminile e risultando efficace e diretto (“sono quella che sono/non un’emozione”) a dispetto di tratti in cui preferisce smozzicare le parole.
Si potrebbe pensare a una svolta dance (e gay) per Edda, ma è più semplice vedere il disco come una sorta di concept al femminile, incentrato soprattutto su tematiche sessuali. Che, a volte, sono soprattutto un velo per coprire sofferenza, senso di inadeguatezza, scollamento dal tempo e dalla realtà. Il solito vecchio Edda, insomma, incasinato almeno quanto noi.