Si chiama Il Mare di Dirac il disco di debutto de La Belle Epoque: otto tracce di indie-rock con stille di canzone d’autore, sospese tra idee vintage e sound contemporaneo (qui la recensione di TraKs). Abbiamo intervistato la band.
Come siete arrivati a questo esordio e perché avete deciso di intitolarlo così?
La Belle Epoque muove i primi passi nel 2009 e si consolida nella formazione attuale nel 2012. Nello stesso anno viene pubblicato un primo demo ep di tre brani intitolato Rumori dal piano di sotto e inizia una buona attività live che non limita il lavoro di composizione. Con una discreta quantità di materiale accumulato alla fine del 2014 la decisione di entrare in studio per le registrazioni del primo album.
Siamo curiosi, ci piace scavare nelle cose e strada facendo durante la stesura dei pezzi ci siamo imbattuti in Paul Dirac, fisico e matematico britannico, nelle sue personali considerazioni sulla bellezza e nelle sue teorie d’avanguardia. Il “mare di Dirac” è questo, è un modello teorico del vuoto visto come un mare infinito di particelle di energia negativa. Un concetto che si rivelò apripista degli studi successivi sull’antimateria. Spiegazioni scientifiche a parte, non è nostra intenzione addentrarci nella fisica, di tutto questo abbiamo voluto prendere in prestito l’aspetto più romantico, l’enorme importanza di quello che spesso non si vede, passa inosservato o facciamo finta di non vedere.
Pare che abbiate lavorato in modo maniacale per un anno e mezzo sull’album e sugli arrangiamenti delle canzoni: leggenda o verità? Potete raccontare qualcosa di queste lavorazioni?
Ci piace pensare che un pezzo sia reso unico dall’unicità di tutte le sue singole componenti. Pertanto sì, abbiamo lavorato molto e con molta cura alla ricerca di arrangiamenti caratterizzanti per i vari brani, partendo dagli intrecci di chitarre, per passare a incursioni di pianoforte e di sintetizzatore con tempi composti e batterie spesso frammentate. Il processo di scrittura coinvolge attivamente l’intera band e non lascia spazio a dubbi: se qualcosa non dovesse convincere si ricomincia da capo.
Avete registrato nell’enorme Teatro delle Voci di Treviso, a confronto con una situazione unica nel suo genere. Perché avete scelto quello studio e quali sono state le difficoltà maggiori che avete dovuto superare?
Durante la ricerca di uno studio adatto alle nostre idee per il progetto abbiamo conosciuto Jean Charles Carbone, ingegnere del suono, produttore, arrangiatore, compositore e polistrumentista che ha lavorato con tantissimi grandi nomi della musica contemporanea. Jean Charles si è dimostrato molto interessato al progetto e alle registrazioni embrionali dei nostri brani e ci ha proposto di lavorare con lui al Teatro delle Voci di Treviso.
La proposta e l’idea di lavorare in un posto così particolare ha portato a una decisione assolutamente rapida e unanime. I giorni trascorsi a Treviso sono stati senza ombra di dubbio una delle esperienze più forti e coinvolgenti per l’intera band. Il teatro ha un’anima personale e indescrivibile (oltre a un’acustica unica nel suo genere) e, una volta superato l’inziale timore “reverenziale” nei confronti di quello spazio così immenso, si è trasformato quasi in una nostra seconda casa. Abbiamo conosciuto persone squisite e grandissimi professionisti, Jean Charles Carbone in primis appunto.
La Belle Epoque, sull’orlo del precipizio
Come nasce “Cracovia” e perché l’avete scelta come singolo?
Ci piace definire Cracovia come un pezzo “sull’orlo del precipizio”, è uno di quei pezzi che si scrivono per mettere i pensieri in salvo. Descrive lo scontrarsi a muso duro con una realtà che mai ci si sarebbe figurati e le possibilità per uscirne “vivi”. Nasce da un tempo composto su cui giocano chitarra e basso e si sviluppa linearmente sino al finale dove un’esplosione di noise fa da tappeto a un pianoforte imponente in chiusura.
L’abbiamo scelta come singolo perché è stato uno dei pezzi cardine per la scelta di entrare in studio a registrare l’album e perché la riteniamo di grande impatto sonoro.
Potete raccontare la strumentazione principale che avete utilizzato per suonare in questo disco?
Di base il disco è stato registrato in presa diretta con tutta la strumentazione che utilizziamo abitualmente durante i nostri live. Ovvero due combo VOX valvolari per le chitarre, testa a transistor e cassa per basso, una batteria con un setup lineare e cassa molto profonda e una tastiera Roland.
Il tutto è stato reso incredibilmente ricco e unico da una serie di sovraincisioni molto particolari con strumentazioni vintage, amplificatori Davoli, pianoforti a coda di inizio 900 e percussioni. Un’attenzione particolare infine è stata rivolta alla voce, per valorizzare il cantato in italiano si è optato per un mixer valvolare anni ’50 e una serie di compressioni rigorosamente d’epoca.
Chi è l’artista indipendente italiano che stimate di più in questo momento e perché?
Domanda difficilissima! Ci sono molti artisti che apprezziamo, ci piacciono molto le band con un approccio compositivo “inusuale”, come quello dei Marta sui Tubi per esempio, ma sarebbe davvero impossibile limitarsi a un nome.