Diciannove anni dopo Infinite possibilità, Giovanardi-Malfatti-Cremonesi rimettono insieme il gruppo e ripartono da capo: Proteggimi da ciò che voglio è il nuovo disco dei La Crus. Non che la band fosse proprio sparita dagli orizzonti: qualche episodio, qualche collaborazione a due, qualche apparizione ma anche molta ruggine che all’improvviso sembra essere stata grattata via.
I La Crus sui social hanno utilizzato contesti religiosi per raccontare l’uscita del disco: “È arrivato finalmente il giorno. Adesso il nostro disco è vostro. Dopo una via Crucis lunghissima in cui siamo caduti ben più di tre volte, ora siamo davvero contenti e soddisfatti del risultato finale. Prendete e ascoltatene tutti!” Del resto è quasi Pasqua, e da un gruppo che si chiama La Crus ci sta.
Non che si siano dati al christian rock (per fortuna): i tre ripartono più o meno da dove li avevamo lasciati, con ovvie evoluzioni ma senza stravolgimenti di senso e di forma. Piuttosto un certo senso di continuità, pur sapendo che siamo sempre tutti (troppo) provvisori. Del resto la loro pagina Facebook lancia ancora un monito: “OFFICIAL PAGE – La Crus insieme esclusivamente per il Festival di Sanremo”. Del 2011.
La Crus traccia per traccia
Si incomincia con La pioggia, che cade e incomincia a trasmettere sensazioni malinconiche. La costruzione del suono è quella che conosciamo bene, con piccoli e delicati intarsi elettronici che interagiscono con l’acustica, mentre la voce di Giovanardi ammanta e ricopre, abbraccia e riscalda.
Mangia dormi lavora ripeti ha a che fare con il blues e con il loop in cui molti di noi vivono. Un brano tagliente, incisivo e con qualche asprezza, ricco di domande e con poche risposte.
C’è un po’ di synth pop e qualche nostalgia sonora di decenni andati in Proteggimi da ciò che voglio, la title track che può far pensare a idee tipo New Order, ma sempre con un’individualità molto spiccata. Una richiesta di difesa, principalmente da se stessi, si sviluppa su dinamiche rapide.
Di messaggi e messaggeri si ragiona in Shitstorm, ballata lunare che racconta di noia, ma con grande dolcezza. Alla fine si ricerca principalmente il momento giusto, anche se non è semplice da trovare.
Vasco Brondi e Slavoj Zizek si uniscono al gruppo su La rivoluzione, brano corale e pop, con molta aria in mezzo e un po’ di ironia circolante. Ed ecco Io non ho inventato la felicità, uno di quei brani scarni, con piccole luci sullo sfondo, melodie improvvise e voce poco più che sussurrata, che sono veramente la cifra dei La Crus (a parte la curiosa voce femminile che canta in inglese e che forse è un filo incongrua).
Problemi di Discronia che si apre a colori diversi, parlando di salute fragile e di invecchiamenti, come a prendere consapevolezza degli anni che passano, a dispetto della musica e del pop.
Formicola di piccoli suoni Sono stato anch’io una stella, che ragiona in termini astronomici e galattici per trasmettere il senso della fine, ma da prospettive davvero stellari.
In fondo al disco si trovano le collaborazioni che hanno fatto tornare il gruppo al centro dell’attenzione negli ultimi mesi: prima la rilettura di Io Confesso con Carmen Consoli, poi Come ogni volta insieme a Colapesce e Dimartino. Un modo per riaffermare il valore incrollabile del lavoro fatto fin qui appoggiandosi a colleghi che condividono caratteristiche di sostanza e qualità.
Ma la sostanza c’era, c’è e probabilmente ci sarà: i La Crus sono uno dei gruppi cardine degli anni Novanta e confermano di non aver perso neanche una briciola di smalto lungo il percorso e nonostante la lontananza. Le canzoni nuove riportano a galla emozioni antiche, raccontano che il fuoco non è spento e che c’è ancora spazio e margine per questo tipo di suoni e di voci.