Esce oggi Alibi, l’album d’esordio de Le Hen: trio di “girls punk rock di Bologna”, come si autodefiniscono. E ne hanno ben donde: il loro è un disco che suona arrabbiato come non si ascoltava da un po’. E con una serie di curiosità che abbiamo cercato di esplorare in questa intervista.
Una curiosità di partenza: qual è la storia della vostra band?
Ci siamo conosciute casualmente a una festa di laurea di un compagno di corso di università della Totta, amico comune delle future Hen. Lui, appassionato di musica, sapeva che la Totta prendeva lezioni di chitarra da anni ma che suonava soltanto in casa da sola quando tutti erano fuori.
Quella sera festeggiando tra spritz e gin fizz, ci siamo trovati nella sua villa in un giardino metafisico simile a un paradiso rock. Un gruppo hardcore intratteneva la serata e finito il concerto, l’amico invitò la Totta per suonare qualcosa.
C: Sì era la mia prima volta, il terrore mi assalì. Mi sedetti imbarazzata e dal microfono cercai complicità tra quei muri d’amplificatori e riflettori. Arrivarono soltanto due ragazze stralunate, le stesse vegane con le quali avevo sbranato da poco una ruola gigante di lasagne.
Neanche farlo apposta una si sedette alla batteria e l’altra al basso. Non sapevo che sapessero suonare. Purtroppo realizzai subito che come me non sapevano suonare, ma ci eravamo già lanciate, incoscienti e aiutate dall’alcol, in una devastante interpretazione di Venus e Satisfaction.
I: Ecco! Tra una laurea, le lasagne e un po’ di rock, sorsero così le mitiche Hen, naturalmente sui famosi colli punk di Bologna.
Qual è il vostro “Alibi”? Quali sono le motivazioni del titolo del disco e che cosa significa la vostra dichiarazione d’intenti “Ognuno dei pezzi cela un qualcosa di meno evidente, ha un alibi”?
Per noi l’alibi è un altrove che ci serve per respirare, per riappacificarci, come un suono che viene da lontano. Le parole sono importanti e amiamo estrapolarle dal loro contesto e inserirle in uno nuovo, a volte affine a volte arbitrario. Questo è il nostro alibi.
L’album stesso ha fisicamente un lato A e un lato B. Ogni nostro brano è caratterizzato da giochi di parole, doppi significati e dietrologie varie che cercano di sdrammatizzare. Un linguaggio che definiremmo “anti-infarto” o, come diremmo qui a Bologna, “antismalvino”.
Taffetà, il primo singolo estratto, racconta della perdita del lavoro e del senso di rifiuto dalla società che la nostra generazione sta vivendo. E’ una frase presa a prestito da Frankestein Jr., quando alla stazione il protagonista fraintende la parola taffetà scambiandola per un saluto della sua amata: una scena tragicomica in un film comico che racconta una storia tragica, quella di Frankestein, il mostro rigettato.
Se Abore Bio narra la storia di un amore malato, troppo appiccicoso, Non credo è un sermone pagano costruito con le diverse affermazioni poco amichevoli da parte della chiesa nei confronti di donne e minoranze mentre Maledetto Fa si riferisce al verbo imperativo, agli obblighi che spesso gravano sulle spalle delle donne, ma anche alla nota musicale, notoriamente ostica per tutti i chitarristi alle prime armi.
Pur prediligendo la lingua madre per eccesso di realismo, usiamo liberamente italiano e inglese convinte di essere nel mondo, oltreché in Europa. Per questo il lato B dell’album è in inglese: Side Effect propone come droga del terzo millennio le salviette intime al mentolo mentre Crime 1001 è quasi un poliziesco, racconta di un crimine, quello di essere “beige dentro”, sottomessi alle convenzioni, tramite la cartella colori RAL e Self Sybilla è un viaggio onirico, in un vortice in cui si viene inghiottiti e in cui l’unico modo per uscirne è vedere sé stessi da un’altra prospettiva, incontrare il proprio Io e scontrarcisi.
Dichiarate di esservi buttate nel disco “senza rete”: mi potete raccontare come è andata la lavorazione dell’album?
Abbiamo registrato allo Studio Spaziale di Bologna cercando di privilegiare la parte più emozionale a quella tecnica perché è il valore aggiunto che riteniamo di avere. Questo ha comportato anche delle imprecisioni, noi le chiamiamo “sporchitudini”, che in certi casi sono volute, si ispirano al mood degli anni ‘60 dove alcune inesattezze erano mantenute per ricreare le atmosfere che potevano nascere in un clima live.
Queste sporcature erano aiutate dal suono del vinile ma erano imprecisioni che hanno in sé un loro fascino. Ci siamo date il permesso di mantenerle perché anche l’errore ha la sua bellezza. E dall’errore nasce l’alibi. Abbiamo cercato di trasformare i nostri limiti in un valore aggiunto, in una nostra componente espressiva, naturalmente aiutate dalla sapiente produzione artistica di John Paoli, che ci ha supportate nel perseguire questa cifra stilistica.
E’ stata una direzione che abbiamo preso di fronte ai nostri limiti, scegliendo la strada più vicina alle nostre corde e vicina al live, con grande spudoratezza di citazioni degli stili e delle epoche musicali. E’ un lavoro pieno di sorprese e anche di ingenuità. E certe cose hanno sorpreso anche noi: sono nate da un metodo di lavoro o forse siamo costrette ad averlo, non lo sappiamo di preciso, se è il lato A o il lato B di noi stesse a prevalere.
Le vostre canzoni sono “vintage” per molti motivi: intanto era parecchio tempo che non sentivo un disco che meriti, almeno in parte, l’aggettivo “militante”, e invece mi sembra che sul vostro l’etichetta (riduttivo per definizione) ci stia…
Grazie mille! Per noi è un complimento meraviglioso! Forse il lato vintage è dato, oltre dalla ricerca del clima live, dal fatto che abbiamo una passione per le atmosfere anni ’60 e ’70, momento in cui le varie espressioni del rock hanno avuto origine. Anche se guardiamo alle mode con grande interesse, non ricoprono un ruolo così importante perché, si sa, passano. Ma la personale modalità di esprimersi no.
Sicuramente vogliamo metterci la faccia rispetto a temi più difficili da affrontare perché pensiamo che se non si fa niente per cambiare le cose allora si è responsabili, ed è lì che ci si nasconde dietro a un alibi, nella sua accezione negativa. Il nostro può essere pensato come un alibi al contrario: diciamo cosa pensiamo in modo diretto ma lo diciamo sorridendo, nella speranza che venga ascoltato e accettato.
Per ora l’attualità, la condizione femminile, delle cosiddette minoranze e il “carosello umano” in generale sono temi che ci toccano da vicino. Crediamo che la musica sia un veicolo molto potente per cambiare le cose. Con i nostri brani cerchiamo di trasformare la serietà in gioco e il gioco in una questione maledettamente seria, di trovare un codice per restare umani, per non avere scuse per non agire, non reagire.
Posto che mi sembra di leggere qualche influenza evidente (cito in ordine sparso CCCP, Breeders, Sonic Youth), quali sono i vostri punti fermi musicali?
Direi dei mostri sacri! Tutti i gruppi che hai citato ci piacciono moltissimo, sono tra i nostri preferiti e ognuno ha avuto una propria identità. Partendo dai Beatles fino ad arrivare all’house ogni cosa ci ha influenzato, c’è tantissima bella musica da ascoltare e noi tre siamo tanto diverse da questo punto di vista. Diciamo che siamo onnivore musicali!
Il tema stesso ha creato il suo stile, è stato un processo a cascata. Non possiamo sapere cosa ci succederà domani o quale sarà il prossimo tema che ci colpirà nel profondo: per noi ogni esperienza, ogni fatto, deve avere la giusta atmosfera per essere compresa. Forse dove ci piacerebbe arrivare in senso stilistico sono le Raincoats: come ha detto Kim Gordon “erano abbastanza sicure di sé da poter essere vulnerabili e semplicemente essere loro stesse senza dover aderire agli stereotipi dell’aggressività del punk-rock maschile o ai sensazionalismi erotici della musica femminile”.
Le Hen traccia per traccia
Si parte da una sorta di sabba/messa satanica racchiusa in Non credo: un senso antireligioso e soprattutto anticlericale potente si impossessa fin da subito del trio, che picchia in maniera convinta e che ravviva le proprie intenzioni punk. La frase “Chi siete voi per giudicare?” (ma anche l’invettiva: “La messa è finita, andate a male!”) racchiudono molto del senso dell’attacco frontale.
Abore Bio ha un inizio altrettanto frontale, ma poi il pezzo si scompone su ritmi più moderati e anche su tematiche molto più ironiche (si parla tendenzialmente di raffreddore e di relazioni non proprio rettilinee).
Si prosegue con una molto più magmatica Maledetto Fa, ribollente di rabbia e di obiezioni. Oltre al Fa in quanto nota, ci sono al centro della polemica e dell’elettricità diffusa gli obblighi sociali a vivere la vita che vogliono gli altri.
Ecco poi Taffetà, che oltre a citare Frankenstein Jr. fa pensare in maniera molto diretta ai CCCP (anche nel ritornello/aggressione: “io non so che cazzo dire/io non so che cazzo fare”) e alla brutalità del punk degli inizi.
Ecco poi il lato B, che passa all’inglese e che scivola un po’ verso sonorità leggermente meno abrasive, a partire da Crime 1001, più sfaccettata e internazionale.
Discorso simile per Side Effect, che risente di influssi alternative/no wave/post punk, con qualche passaggio subacqueo e qualche sfumatura in più.
Self Sybilla ha un drumming molto sostenuto ma lo utilizza per incamminarsi su sentieri quasi psichedelici, aprendo a ulteriori sviluppi anche per il futuro della band.
Chiusura al nero con Finally, che inizia con poco più di un sussurro, ma poi getta la maschera e ricomincia a far casino.
Lavoro come in effetti non se ne sentiva da un po’, quello delle Hen, capaci di far riemergere scheletri punk dall’armadio ma anche di farli ballare, cantare e soprattutto di farli incazzare come si deve.