Con l’umile ma malcelata ambizione di fornire ai lettori di TRAKS qualcosa di “diverso”, che si possa leggere accanto, insieme, sopra e sotto la musica che accompagna le nostre giornate, questo agosto abbiamo deciso di proporre o riproporre alcuni articoli monografici che abbiamo scritto in passato, per lo più su altre testate, e che non volevamo andassero persi. Letture estive, ma anche per ogni stagione.
Incontrandolo per ipotesi in una strada qualsiasi, con quell’aria da dandy vecchio stampo e lo sguardo un po’ assente, verrebbe spontaneo giudicarlo innocuo. Errore grave.
Spesso si dice che la penna di qualcuno è “corrosiva”. Ecco, se non avete conosciuto Steven Patrick Morrissey, non sapete che cosa vuol dire scrivere in modo “corrosivo”. E nemmeno parlare, cantare, rilasciare dichiarazioni alla stampa che risultino in una corrosione dell’ovvietà, della morale comune oppure dei rapporti con chi ti è più vicino.
Nato da genitori irlandesi e cattolici che si trasferiscono per motivi di lavoro nella inglesissima, operaia e non molto bene intenzionata con gli emigranti Manchester, Morrissey è abituato al conflitto fin da ragazzino. Del resto se ti piace leggere e il tuo idolo è Oscar Wilde, non diventerai popolarissimo nelle scuole della working class britannica degli anni ’60 e ’70.
Una delle scappatoie classiche è, in Inghilterra, la musica pop. Così Morrissey diventa il frontman di una band punk, anche se quello che vorrebbe veramente fare è scrivere. Vorrebbe diventare uno scrittore di successo, ma siccome non ci riesce subito, ecco l’ovvio ripiego: fare il giornalista (che, come è ben noto, è sempre meglio che fare il cantante punk).
Scrive di musica per il Record Mirror, ma scrive anche libri, per esempio la biografia di un altro suo idolo, James Dean (James Dean is not dead). Di lì a poco, a un concerto di Patti Smith, gli presentano un ragazzino bravo con la chitarra, Johnny Marr. Il chitarrista ha 14 anni, Morrissey 19, ma nonostante la differenza di età i due solidarizzano. Nascono The Smiths, forse la band più influente nella musica inglese tra quelle rimaste sempre sottotraccia.
Che poi, come facessero a rimanere sottotraccia con Morrissey come cantante, non si capisce davvero. Nel giro di un paio di dischi la band aveva causato polemiche riguardanti: l’omosessualità, la pedofilia, le sempre molto amate in Gran Bretagna punizioni corporali per i ragazzi in età scolare, il governo Thatcher, la monarchia britannica.
E anche il progetto Band Aid, quello di Bob Geldof e di Do they know it’s Christmas (“Un conto – spiegò Morrissey – è essere molto preoccupati per la popolazione etiope, ma un’altra cosa è infliggere una tortura quotidiana al popolo d’Inghilterra”). Ah, en passant avevano fatto anche incazzare il nonno di una delle vittime di due serial killer, quelli dei cosiddetti Moors murders, sui quali avevano scritto Suffer little children.
Ma la band colpisce in profondità. I testi di Morrissey sono anti-romantici, spesso crudeli, a volte intinti in un’ironia asciutta e acida (corrosiva?). E soprattutto sono sinceri nell’intimo. Mentre nelle classifiche dominano le cosette superficiali di Madonna e degli Wham!, Moz scrive testi intelligenti e anti-machisti come This Charming Man o Pretty Girls Make Graves. E comunque insulta persone a grappoli.
A proposito di Wham!: dopo aver sentito un dj della BBC dare la notizia del disastro di Chernobyl e un secondo dopo annunciare con enfasi il nuovo singolo del duo capitanato da George Michael, Morrissey prende carta e penna e scrive Panic, un pezzo che nel ritornello chiede con insistenza: “hang the dj, hang the dj, hang the dj”. “Impicca il dj/impicca il dj/impicca il dj”. Venitemi a dire che aveva torto, forza.
Anche quando fa finta di scusarsi, scrive canzoni come Bigmouth strikes again, in cui dice di sentirsi come Giovanna d’Arco sul rogo e prende per i fondelli tutti. Chiaro che con uno così non è facilissimo andare d’accordo. A un certo punto licenzia il bassista della band, Andy Rourke, lasciandogli un post-it sul parabrezza dell’auto.
Gli Smiths pubblicano il proprio capolavoro, The Queen is Dead, con canzoni fragili e meravigliose come I know it’s over e There is a light that never goes out, poi ancora un disco nel 1987, poi si sciolgono.
Johnny Marr ne aveva abbastanza dell’ossessione di Morrissey per le cover di canzoni degli anni Sessanta, e comunque ne aveva abbastanza di Morrissey. Il quale, da parte sua, riguardo a una possibile reunion, è stato, come sempre, moderato e tranquillo: «Mi mangerei i testicoli, piuttosto. Ed è dire qualcosa, visto che sono vegetariano».
In realtà sono andati vicino a una reunion più volte, anche se poi non se n’è fatto nulla. Morrissey ha continuato la sua carriera da solo, senza migliorare il proprio carattere di una virgola. Anzi, ha radicalizzato le proprie posizioni, ha fatto di tutto perché molti lo accusassero di razzismo (lui, un immigrato figlio di immigrati) e ha proseguito nella battaglia a favore del vegetarianesimo. «In generale, io non riesco a sedermi a qualsiasi tavolo dove viene servita carne, a meno che, naturalmente, non si tratti di carne umana».
Di tanto in tanto, si rende conto di essere uno che, come dire, un po’ esagera. Lo si capisce da testi come la già citata I know it’s over: «è così facile ridere, è così facile odiare. Ci vuole fegato a essere gentili e cortesi».
Anche nella sua vita da solista ha continuato a dispensare perle assolute, anche in campo pop, come Suedehead o Everyday it’s like Sunday (in cui è talmente felice da invocare un bombardamento nucleare sulla propria città).
E ha continuato anche a far sì che la gente si interroghi sulla sua sessualità. Gay? Bisex? Che altro? Lui una volta dice di essere stato legato sentimentalmente a un pugile, un’altra volta di non essere gay, un’altra volta di voler fondare un quarto sesso (perché il terzo ha fallito), un’altra ancora di non essere per niente interessato al sesso. Il che è strano, perché nelle sue canzoni ne parla spesso.
Parla spesso anche di politica, nelle sue canzoni, per esempio in America is not the world, in cui dice al gigante d’Oltreoceano che non ha niente da insegnargli, finché elegge soltanto presidenti maschi e WASP. Gli americani si sono così risentititi che di lì a poco hanno eletto Obama.
Si faceva all’inizio l’ipotesi di incontrarlo per strada. Non è così peregrina: per anni ha vissuto a Roma, e tuttora ha una casa nella Città eterna. La cultura italiana gli è tutt’altro che oscura, tanto è vero che ne parla per esempio in You have killed me: “Pasolini it’s me/Accattone you’ll be”, in un testo che parla anche di Visconti e della Magnani.
Non è un’adesione di maniera. Quando La Repubblica lo intervista, spiega: «La cultura italiana è ricca e risuona in tutto il mondo. E in prima linea per questa cultura, anche se a molti italiani questo piace e a molti no, c’è Pasolini. Il mio nuovo disco cerca di vendicare Pasolini. I suoi saggi sulla vita italiana sono oggi più veri che mai».
Aggiungerà, in un’altra intervista: «Ho visto tutti i suoi (di Pasolini, ndr) film… Pieni di gente vera e senza distrazioni, solo la persona nuda, e la vita di strada. Un genio estremo. Lui non aveva bisogno di sembrare qualcun altro, solo di essere se stesso nel suo mondo. E anche se era ossessionato con la vita della povera gente, questo era tutto quello che voleva. Nient’altro».
L’onestà, la sincerità, la scarsa simpatia per le verità velate o celate, l’ “io so” di Pasolini: ecco che cosa sta inseguendo il vecchio Moz. Con uno strumento leggero come la musica pop, ma con lo stesso atteggiamento crudo fino all’intimo, a volte autodistruttivo, lo stesso sguardo indagatore. Con un po’ di ironia angloirlandese in più.
Se lo incontrate per strada, a Roma oppure ovunque nel mondo, stringetegli la mano. Lui forse vi insulterà, ma lo farà soltanto per il vostro bene.