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Senza pretendere di essere particolarmente originali, siamo anche noi qui a parlare di Sanremo 2021 dopo aver letto la lista dei partecipanti. E ne parliamo perché è una lista di 26 nomi che si presta a numerose speculazioni: questo articolo nasce anche da una conversazione “di redazione” (cioè uno scambio di vocali) tra me (Fabio) e Chiara Orsetti, illustrissima caporedattrice e metà del progetto TRAKS.

Che si tratti di una lista di nomi particolarmente innovativa e fortissimamente influenzata dall’emergere del mondo indipendente anche in termini di ascolti e di presenze ai live (quando si poteva, quando si potrà) è un dato di fatto. Metti in fila La Rappresentante di lista, Fulminacci, Colapesce-Dimartino, Coma Cose, Stato Sociale, Madame, Willy Peyote, perfino Davide Toffolo che sarà lì con gli Extraliscio, Ghemon, se vogliamo anche Gio Evan e Aiello, che rappresentano la parte superpop, e hai davvero un contesto tipo Mi Ami con Orietta Berti, come da brillante definizione di “Sei tutto l’indie”.

E se vogliamo, anche gli “altri” sono stati scelti fra coloro i quali non hanno avuto mai problemi a dialogare con il mondo indie: Gazzé, Annalisa, Bugo (ok, lui è lì per fare incazzare Morgan), Maneskin, Fedez-Michielin, Malika, Noemi, Ermal, tutto sommato Arisa. Sottorappresentata la quota rap, o almeno: c’è chi arriva dal mondo rap come Coma Cose, Madame, lo stesso Ghemon, ma che è approdato nel tempo a soluzioni più melodiche. Del resto mettere anche Salmo, Marracash o Gemitaiz all’Ariston, posto che non ci sarebbero andati, sarebbe stato comunque troppo, e in ogni caso per gli integralisti c’è sempre Willy.

Sconfitti i talent: ormai arrivi a Sanremo da un talent quasi esclusivamente per vie indirette e con almeno qualche successo alle spalle. E poi c’è quella che possiamo definire la “quota Albano”, alias artista con lunghissima storia alle spalle e con duecento presenze al festival, tanto da dare l’impressione che la tua carriera inizi e finisca a Sanremo. Ed è quasi estinta. Anzi, è curiosamente rappresentata da uno come Renga, che però ricordo abbastanza bene con i capelli al vento a vocalizzare nei molto alternativi Timoria, e la clamorosa Orietta, che tuttavia è un personaggio totalmente alternativo di suo. E che è lì anche per far scrivere al Corriere e alla Stampa: “Sul palco di Sanremo la vera indipendente sembra Orietta Berti” (si accettano scommesse, me la gioco alla pari).

Tutto figo quindi? In parte sì, di sicuro è il trionfo di un processo durato anni e portato avanti dagli artisti in primis, da etichette meritorie come Garrincha o come Bomba Dischi o Maciste o La Tempesta o Woodworm, non necessariamente rappresentate in questo Sanremo (ma qualcuno nei precedenti sì), ma presenti sicuramente nel processo. E anche di testate come TRAKS e come le altre che hanno letto e interpretato il fenomeno indie in questi anni. Ok, quindi abbiamo vinto.

E invece ecco Chiara che mi dice: no, perché se tre quarti della gente che sale sul palco di Sanremo non la conosce, non dico mio padre, ma nemmeno i miei coetanei, si rischia un effetto contrario. Cioè che la gente non lo guardi proprio.

Questa argomentazione ha indubbiamente dei punti a favore: Sanremo è la rassicurazione, la certezza di fine inverno, la copertina calda che ti fa dire che il mondo continua. E tutti sappiamo quanto servano le rassicurazioni in un momento come questo. Si introducono un po’ alla volta elementi “disturbanti” come furono Vasco Rossi o Zucchero all’epoca, o anche Battisti prima di loro (di Tenco è meglio non parlare), e come sono stati Afterhours, Marlene, Motta, Zen Circus, Diodato (che ha perfino vinto) negli ultimi anni, fianco a fianco con la “quota Albano”, e si vede l’effetto che fa. Non si invertono gli ingredienti, facendo diventare maggioritaria la quota alternativa. Anche perché se no non è più alternativa.

Ecco però il problema è che l’aria è proprio cambiata. Le major, a livello di “testa”, sono in crisi da vent’anni, non scoprono talenti, li comprano già fatti, arrivano sempre con l’ultimo treno, stanno in piedi solo per le glorie passate e per una macchina organizzativa che funziona bene perché le persone che ci lavorano dentro hanno una professionalità e un’esperienza conclamata, ma a livello decisionale sembrano fare a gara per chi segue sempre la strada sbagliata.

Per un po’ hanno cercato di affidarsi totalmente ai talent, coprendo di soldi e attenzioni fenomeni durati cinque minuti, e riempiendo l’albo d’oro sanremese di gente che oggi anche i genitori riconoscono a fatica. Risultato: zero riscontri in classifica e nei live, pochissime apparizioni televisive concentrate soprattutto nell’immediato post Sanremo, e sparizione immediata (con eventuale rientro sui giornali nelle sempre ospitali pagine della cronaca nera, qualche anno dopo).

Ma ora, va detto, anche il mondo dei talent, a partire da X Factor, ha cambiato rotta e ha cercato di pescare dal mondo dell’indie. Anche se poi vincono le ragazzette dalla voce bellina, Little Pieces of Marmelade, Cmqmartina, Manitoba, Melancholia, NAIP, lo stesso Merio eliminato nelle prime fasi e molti altri arrivano da una gavetta fatta di concerti al pub dove la gente non ti ascolta neanche se la prendi a calci, e che poi, canzone dopo canzone e concerto dopo concerto sono arrivati a farsi le ossa e ad accedere ai palchi televisivi.

Insomma, ormai non è neanche più una scelta. Certo, si poteva fare un festival con artisti nobilissimi e già ben noti, che so, Ruggeri e Vecchioni, Anna Oxa e Patty Pravo (ma senza Vasco Brondi, benché il meme di Socialisti Gaudenti fosse particolarmente suggestivo), Mietta, la Berté, i Pooh superstiti e poi includere “quelli strani”, quelli che conoscono soltanto su La Stazione Indipendente e che finiscono nelle playlist de Le Rane.

Però poi i riscontri discografici avrebbero convinto soltanto i già convinti, in televisione gli indici sarebbero magari anche andati meglio di quello che andranno, ma sarebbe stato certificare un distacco ormai definitivo di Sanremo e anche delle major dalla realtà. Qualche punto guadagnato su Spotify per qualche giorno, e poi ciao e addio.

Così invece si può sperare che qualcuno in più si accorga del talento di scrittura di Fulminacci, della creatività e di tutti i colori della Rappresentante, della chimica(pisce) dei Coma Cose e che qualcuno riesca a stare dietro passo passo alle mitragliate di Willy. No ok, questo non è possibile.

Anche perché gli indipendenti che sono passati di lì negli ultimi anni hanno dimostrato che si può salire su quel palco senza perdere un grammo né un centimetro della propria “indipendenza”: gli Zen pubblicano un disco “da Zen” due anni dopo aver occupato militarmente l’Ariston, e sono abbastanza sicuro che quando torneranno in concerto continueranno a dire a tutti di andare affanculo, come da consolidata tradizione. Del resto Appino stesso mi diceva, in un’intervista in una pizzeria di San Salvatore Monferrato, che Sanremo fatto come lo hanno fatto loro non era già più una cosa “da pionieri”, come quando invece lo avevano fatto After, Marlene e compagnia.

L’indipendenza è un comportamento e un atteggiamento, non è un genere e non è neanche la firma su un contratto. L’indie si è trasformato in itpop, che è una bestia strana, con tante teste che guardano in direzioni diverse. Ma è una bestia che si sa evolvere e che sa adattarsi al cambiamento. Tre anni fa stavo al Mi Ami e c’era Colapesce che chiudeva la serata vestito da prete. Se mi avessero detto che lui sarebbe stato tra i più moderati sul palco di Sanremo 2021 avrei fatto fatica a crederci, ma i tempi corrono. E per fortuna abbiamo artisti che sono capaci di correre almeno quanto i tempi.

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