Con l’umile ma malcelata ambizione di fornire ai lettori di TRAKS qualcosa di “diverso”, che si possa leggere accanto, insieme, sopra e sotto la musica che accompagna le nostre giornate, questo agosto abbiamo deciso di proporre o riproporre alcuni articoli monografici che abbiamo scritto in passato, per lo più su altre testate, e che non volevamo andassero persi. Letture estive, ma anche per ogni stagione.

C’è stato un momento in cui Sufjan Stevens, cantautore di Detroit con un grande seguito in ambito indie, ha “minacciato” di pubblicare cinquanta dischi, dedicati ognuno a uno degli Stati Uniti. Più tardi disse di aver scherzato e che comunque la dichiarazione era stata un ottimo stratagemma pubblicitario.

Fatto sta che, dopo aver dedicato al nativo Michigan il proprio terzo album, uscito nel 2003, due anni più tardi decise di fare del vicino Illinois il protagonista del nuovo disco.

Ne uscì quella che è probabilmente la sua opera migliore, ventidue canzoni che partono da fondamenta folk per diffondersi più o meno in tutte le direzioni, com’è tipico della produzione di Stevens. Chicago, il singolo, ebbe anche un certo successo “da classifica” in America, all’epoca.

Tipo strano, Sufjan Stevens. Un nome arabo, che significa “colui che arriva con la spada”, ottenuto grazie all’adesione dei suoi genitori a una comunità interreligiosa.

Molti hanno sottolineato l’ispirazione cristiana della sua musica. Il cantautore ha ammesso di essere credente, ma ha sempre respinto connessioni troppo aperte fra i suoi testi e la sua fede. Ma ha pubblicato anche un paio di dischi di canti di Natale, riletti in chiave indie. Molta bontà, molta attenzione allo spirito, molta ispirazione positiva. Almeno se non si parla di serial killer.

Per esempio quello che, all’interno di Illinois, si è meritato una canzone intera, John Wayne Gacy jr.

Gacy è stato giustiziato il 9 maggio 1994, quattordici anni dopo la condanna, per un numero imprecisato di omicidi, seguiti a tortura e abusi sessuali, di numerosi (tra i 27 e i 33) ragazzi, per lo più sotto i vent’anni.

Nato a Chicago, Illinois, aveva alle spalle il classico background da assassino seriale, con padre violento e ubriacone: un ex veterano della prima guerra mondiale il quale, oltre a frustarlo con la cintura e prenderlo a colpi di manico di scopa in faccia, faceva tutto il possibile per farlo sentire inetto e inferiore alle due sorelle. Gacy, che da ragazzino era stato anche molestato da un amico di famiglia, divenne celebre come il “Killer Clown”. Ma anche anni dopo, negò sempre e con veemenza di aver mai odiato suo padre.

L’uomo era un personaggio ben noto nella propria comunità. Aderì attivamente al partito democratico e, nonostante alcuni precedenti penali inquietanti, arrivò a farsi una foto con la First Lady Rosalynn Carter nel 1978, con ben visibile sul petto un distintivo dei servizi segreti che lo avevano evidentemente autorizzato ad avvicinarsi alla moglie del presidente (per dire dell’infallibilità delle agencies americane). La First Lady augurò best wishes a Gacy nella dedica firmata sulla foto.

Ma soprattutto si travestiva da “Clown Pogo” e partecipava a parate ed eventi benefici. Una specie di Patch Adams del male, insomma. Era particolarmente abile, nella parte, e sosteneva che recitare come pagliaccio gli consentiva di regredire all’infanzia.

Un altro tipo di regressione glielo consentivano gli omicidi. Solitamente adescava ragazzi, alle fermate degli autobus o nei negozi, li portava a casa, ne faceva scempio, li soffocava e li seppelliva sotto il pavimento. Poteva agire indisturbato perché, dopo due divorzi, viveva da solo, in una casa isolata.

Aveva inoltre la competenza per sepolture efficaci perché titolare di un business di ristrutturazione di appartamenti. Quando lo spazio sotto le travi terminò, iniziò a buttare i corpi nel fiume.

Che cosa ha spinto un ragazzo tranquillo e timorato di Dio come Sufjan Stevens a scrivere una canzone su John Wayne Gacy jr.? Il fatto che stesse raccontando dell’Illinois, sicuramente. Tra i famosi figli dello stato non ci sono soltanto Abraham Lincoln, Walt Disney, Robin Williams o Barack Obama. E poi probabilmente la storia del pagliaccio.

Non è che tutti i killer siano sempre e solo orrendi in tutte le proprie manifestazioni. Per dire, Mark David Chapman, che sparò a John Lennon, era uno che faceva volontariato e molti se lo ricordano sempre “con un ginocchio piegato” per aiutare un bambino.

Così Gacy aveva questa sorta di doppia attitudine e cercò anche di marciarci, al processo, provando a farsi assolvere per disturbo della personalità, ma la giuria non ci cascò.

Nel testo, Sufjan racconta la storia di Gacy, parlando del padre ubriacone e raccontandoci della madre, che piangeva nel letto. Ci racconta come i vicini lo adorassero per lo humor e l’abilità nel conversare. Gli sta forse fornendo una sorta di alibi? Ma no: poi ci racconta dei cadaveri.

E lo stacco è brusco: non sono soltanto vittime, erano “ragazzi, con le loro auto, i lavori estivi”. Siamo di fronte a loro, li vediamo in faccia. Anzi, chiede Sufjan a chi ascolta: “Tu sei uno di loro?”

Ed ecco il clown: Gacy si vestiva da pagliaccio, con la sua faccia dipinta di bianco e rosso e “con le sue migliori maniere”, dice il testo, “li baciava tutti”. Ma non si ferma all’eufemismo, raccontando qualche particolare più vivo degli omicidi. Se non lo avessero fermato, racconta, avrebbe ucciso diecimila persone.  

Il tutto utilizzando una piccola ondata musicale molto quieta, con pochissime punte di dramma e senza mai andare sopra le righe. Il pezzo del resto è molto breve e semplice, poco più di tre minuti di melodia triste e dolce.

Finito qui? No. Prima di chiudere il pezzo, ecco il twist end: forse l’ascoltatore è una delle vittime, ma chi canta non è uno che è lì per giudicare o denigrare. Anzi, ci dice: “con le mie migliori maniere/io sono davvero come lui/cerca sotto le travi del mio pavimento/per i segreti che custodisco”. Chi sei davvero, Sufjan Stevens?

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