Si parla di concetti spesso astratti, espressi in forma poetica, nel nuovo disco di Umberto Maria Giardini, Forma Mentis (di cui abbiamo pubblicato qualche giorno fa la recensione). Ma questa attitudine alla speculazione non priva il cantautore del piacere di calare ogni tanto qualche rasoiata qui e là sul presente.
Tutte critiche motivate, peraltro, come si leggerà in un’intervista telefonica in cui si dimostra non soltanto estremamente disponibile, ma anche molto più affabile di come qualcuno lo racconta. E’ anche vero che noi di TRAKS siamo molto simpatici e intelligenti, quindi gli abbiamo anche facilitato oggettivamente le cose.
Raccontando di Futuro proximo, il tuo disco precedente, dicevi che eri arrivato un po’ di corsa in studio e che c’era stato qualche incidente. Stavolta com’è andata e come hai potuto lavorare al disco?
Questa volta è andata diversamente. Ho avuto più tempo, tant’è che ho avuto anche il lusso di spezzettare le registrazioni e di registrare in studi diversi. Questo perché ho pensato, e il mio istinto mi ha dato ragione, che determinati brani potevano anche guadagnare da un’atmosfera legata al posto dove sono andato, ai momenti, ai produttori.
Mi sembra che ciononostante il disco suoni molto omogeneo e coerente… Non ti sei preoccupato di eventuali difformità?
Mi sono preoccupato eccome, perché poi ho cercato, e credo di esserci riuscito, di amalgamare il tutto attraverso il mixaggio e la masterizzazione, che ha dato continuità a tutto il lavoro. Abbiamo cercato di unire i brani e di farli sentire uno “fratello” dell’altro.
Mi sembra che il tuo approccio sia non necessariamente sempre più aggressivo, ma sempre più “rock” nel senso più pieno del termine e meno cantautorale, abbia fatto ulteriori passi avanti in Forma mentis. È una scelta progettuale o ti viene semplicemente spontaneo?
Da tempi non sospetti ho cercato di allontanarmi dal cliché e dalla catalogazione di cantautore. Non perché io non lo sia, ma è anche vero che si è estremamente abusato di questo termine negli ultimi anni in Italia. Ho una sorta di rigetto alla parola “cantautore”.
Tra l’altro, sia quand’ero più giovane sotto l’etichetta “Moltheni”, sia come Umberto Maria Giardini ho lavorato con una visione molto più oggettiva e tecnica, propensa alla band. Quindi in definitiva mi sento semplicemente il leader di una band. Questo scrollarmi da dosso l’etichetta, il timbro e il tatuaggio da cantautore per una mia visione personale mi ha fatto sempre molto bene.
Mi sono accorto che Wikipedia cataloga il tuo disco sotto la categoria “rock progressivo”, cosa che ho trovato piuttosto curiosa, nonostante qualche tua frequentazione del genere in passato. Immagino che tu non sia molto affezionato a etichette o categorizzazioni; ma se dovessi dare una definizione di questo disco nello specifico come lo collocheresti?
Collocare dischi oggigiorno è molto difficile, anche perché Forma Mentis è un album molto vario. Strizza decisamente l’occhio all’hard rock, ma ci sono numerosi momenti legati alle esperienze cantautorali, alcuni brani hanno un sapore rock, sempre permeato di psichedelia, che è un ingrediente che sempre presente in qualsiasi cosa che ho scritto nella mia vita, sia quando ho scritto album più “leggeri” nell’esperienza Moltheni, sia quando mi sono dedicato a un concept album sperimentale come il progetto Pineda, sia quando ho lavorato nei primi album di Umberto Maria Giardini. Psichedelia ovunque, perché è il genere che mi appartiene in primis.
Quindi credo che sia un disco molto vario, di difficile collocazione perché in ogni episodio possono rientrare tanti concetti legati ai generi musicali che mi sono cari.
Forse il pezzo più “cantautorale”, anche se in senso lato, è Le colpe dell’adolescenza. Che mi sembra anche abbastanza autobiografico, tutto sommato. Lo è oppure stai raccontando in generale?
Lo è, è il brano più intimo insieme a Tenebra, che già dal titolo è un preludio alla sua mancanza di luce. Le colpe dell’adolescenza è un brano estremamente autobiografico; per chi mi conosce, probabilmente è il brano che più ricorda l’attitudine degli anni del progetto Moltheni. Però è anche un aspetto della mia personalità artistica e musicale, pertanto penso che sia un intervallo all’interno del disco in cui ci possa essere una parentesi del genere.
Non hai mai rinnegato la tua parte di carriera come Moltheni: l’hai semplicemente superata
Non ho mai rinnegato nulla: per vari motivi era giusto così, era la mia vita, la mia giovinezza. Ed è stata molto più dignitosa di tanti personaggi della musica italiana che conosciamo oggi…
Più o meno in tutti i dischi hai usato allusioni di tipo “astronomico” e anche in questo caso ci sono le Pleiadi. Vorrei sapere se è un tuo interesse oppure se è soltanto un espediente di scrittura
Un po’ l’uno e l’altro, sono un grande appassionato di astronomia, però credo che alla fine sia esclusivamente una sorta di aggancio che mi è venuto mentre scrivevo. Neanche mi ricordo in quale altro album l’ho fatto (ci sono “Alba boreale” in “Futuro Proximo”, “Urania”, che però è una musa, in “Protestantesima” e “Anni luce” ne “La dieta dell’imperatrice”, limitandosi alla sola esperienza UMG, Ndr) ma in tutta sincerità sono momenti che, quando mi dedico alla scrittura, vengono fuori in base alle nozioni che ho in testa e che metto nero su bianco. Ma non sono cose volute, pilotate o in qualche modo prevedibili: avvengono, punto e basta.
Mi ha incuriosito molto anche l’opposizione tra “Luce” e “Tenebra”, che hanno in realtà una continuità di temi. Vorrei sapere se le due canzoni sono nate insieme e se l’argomento trattato, cioè la morte, è spesso oggetto dei tuoi pensieri.
I brani non sono nati nello stesso periodo. Mentre l’elemento legato alla morte e al significato della morte è un tema molto ricorrente nella mia scrittura come probabilmente anche nella mia testa.
Ho sempre considerato la morte una compagna di viaggio a volte scomoda a volte addirittura amica. Non posso negare che con la maturità si sia accentuata. Essendo invecchiato, essendo una persona più adulta, penso sia un tema che dia anche dei significati, anche al di là di come possa essere tradotto dall’ascoltatore. È un tema presente e io non faccio nulla per far finta che non ci sia.
Umberto Maria Giardini: viva il rap, abbasso il falso rap
Da alcune interviste che hai rilasciato e anche dal testo di Di fiori e di burro è abbastanza chiaro che cosa non ti piace della musica italiana di oggi, tipo le ultime propaggini dell’indie e soprattutto il rap…
In realtà ogni giorno mi capita di sentire anche personaggi nuovi, personaggi alla scena rap nazionale molto interessanti. Io credo che come in tutti i generi musicali e non solo per quelli legati al mercato rock sia necessario offrire al di fuori l’oggettiva credibilità di quello che si fa.
Devo essere onesto, è una mia impressione che non necessariamente è condivisibile, e non mi riferisco alla situazione del rap attuale, perché sono stati fatti passi da gigante e ci sono personaggi veramente credibili, ma ci sono anche degli altri che sono dei pagliacci e dei buffoni, che buttano tutto nel calderone. A cui il pubblico abbocca perché la cultura musicale oggi, è risaputo, è abbastanza in decadenza in Italia e qualsiasi cosa venga scimmiottata può riscuotere successo ed essere veicolata sotto falsa identità di musica rap.
Quindi sottolineo, come mi è capitato in molte occasioni, che non ho nulla contro la musica rap, non mi piace l’evidente falsità della maggior parte dei progetti, mentre ce ne sono alcuni che sono veramente molto interessanti. Quindi viva la musica rap, abbasso il falso rap.
Ho letto che invece hai seguito Sanremo e ti è anche piaciuto.
È vero, l’ho trovata veramente una delle edizioni più interessanti degli ultimi trent’anni. Forse la migliore.
E tu ci sei anche passato di lì e quindi puoi parlarne anche con cognizione di causa…
Sì, quest’anno ho avuto occasione di seguirlo più degli altri anni. Quindi la mia visione è condizionata da questo fattore. Però devo dire che è stata un’edizione molto molto dignitosa, con brani e interpreti molto in gamba.
Poi è ovvio che ci sono i soliti teatrini un po’ patetici, legati proprio alla nostra cultura più che all’evento in se stesso. La nostra cultura un po’ bigotta: teatrini, situazioni imbarazzanti, scelte estetiche discutibili. Però tolto questo devo dire che per quanto riguarda proprio le canzoni e i brani, a parte tre sciocchezze, il livello si è alzato in maniera abbastanza considerevole quest’anno.
Che tipo di avventura è quella con gli Stella Maris? Avrà un seguito?
Alla seconda domanda non so rispondere. È stata un’esperienza molto interessante, soprattutto per due fattori: il primo perché abbiamo lavorato bene e per gioco, ma abbiamo sfornato un disco che non è stato un gioco.
In secondo luogo abbiamo stretto un’amicizia fraterna con gli altri componenti, con i musicisti. Si è creata una famiglia che, al di là del fatto se andrà avanti o non andrà avanti in futuro (questo lo può dire soltanto il destino e il tempo) è stata un’esperienza molto bella proprio dal punto di vista “amorevole”.
Parti in tour a breve. Ti piace la dimensione del live? Sei tra quelli che amano quel tipo di vita o tra quelli che la detestano?
Partirò a marzo, la prima data è a Roma, poi andremo avanti in estate. Sarà un tour abbastanza concentrato, quindi non moltissime date. Diciamo che non la amo e non la odio, forse con gli anni mi affascina molto meno. Cerco di fare il mio dovere e la concepisco come lavoro.
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Fabio Alcini