Come da tradizione (recente) dedichiamo agosto alla lettura: per il 2024 abbiamo deciso di ripubblicare una serie di pagine tratte dal volume “Italia d’autore” (Arcana, 2019), dedicato ai grandi cantautori che hanno fatto la storia della musica italiana.
Giorgio Gaberscik nasce a Milano, in via Londonio 28, il 25 gennaio 1939. I suoi genitori, come quelli di Paoli e di Endrigo, provengono da est: la madre è veneziana e il padre istriano e si sono trasferiti in Lombardia in cerca di fortuna. La trovano, almeno parzialmente: Guido Gaberscik è impiegato, Carla Mazzoran fa la casalinga e bada a Marcello, che studia da geometra e suona la chitarra, e a Giorgio, che però ha qualche problema di salute.
Quando ha otto anni si fa male a un braccio, tanto che rischia la paralisi della mano. Per evitarla deve tenere il braccio in costante allenamento, così il fratello gli presta la chitarra e il problema è risolto. Cresce, perfeziona la tecnica e ascolta i jazzisti, che sono il fenomeno del momento. Il primo gruppo che lo recluta è Ghigo e gli arrabbiati, ma poco dopo entra nei Rock Boys di Celentano, nei quali suona, al pianoforte, anche Enzo Jannacci.
Con lui, Luigi Tenco, Gian Franco Reverberi e Paolo Tomelleri forma i Rocky Mountains Old Times Stomp, con cui si esibisce al Santa Tecla di Milano. Tra il 1957 e il 1958 accompagnano anche Celentano nella sua tournée tedesca. Va tenuto presente che nel 1958 Gaber ha diciannove anni e infatti arriva il diploma da ragioniere, per lui che tutto sembra fuorché un ragiunàtt. Nanni Ricordi gli fa fare un provino e poi lo scrittura, pubblicando il suo primo disco, Ciao ti dirò.
Partecipa al Musichiere, si esibisce al Palazzo del Ghiaccio di Milano con tutti gli artisti emergenti del periodo, da Mina a Celentano, e infine forma I Due Corsari con Jannacci. Pubblicano alcuni 45 giri di successo, tra cui Una fetta di limone, mentre nel 1960 esce a nome di Gaber La ballata del Cerutti, con parole di Umberto Simonetta. Inizia a collaborare per i testi anche con Sandro Luporini, pittore viareggino che s’interessa di teatro e musica.
Ma sono ancora di Simonetta alcuni dei versi che portano gradualmente Gaber al successo, come Trani a gogò e Porta Romana. Dopo una storia a metà tra sentimento e professione con Maria Monti, inizia la relazione con Ombretta Colli, che sposa nel 1965. Ma a questo punto è già all’apice della popolarità: ha partecipato a tre edizioni di Sanremo, ha pubblicato un lp insieme a Mina, ha affermato il proprio stile, che fino a quel punto mescola in maniera equilibrata qualità autoriale e ironia, in modo non molto diverso da quello portato avanti dall’amico Jannacci.
Il teatro canzone
A Gaber, però, manca qualcosa. Presenta show televisivi, va in tournée, contribuisce al lancio del giovane Franco Battiato, suona in svariati contesti, ma c’è un capitolo ancora da scrivere e ne è consapevole. Così, decide di voltare pagina. Qualche anno più tardi dichiarerà alla rivista Rockstar:
La fine degli anni Sessanta era un periodo straordinario, carico di tensione, di voglia, al di là degli avvenimenti politici e non, che conosciamo, e fare televisione era diventato dequalificante. Mi nauseava un po’ una certa formula, mi stavano strette le sue limitazioni di censura, di linguaggio, di espressività e allora mi dissi: d’accordo, ho fatto questo lavoro e ho avuto successo, ma ora a questo successo vorrei porre delle condizioni. Mi sembrò che l’attività teatrale riacquistasse un senso alla luce del mio rifiuto di un certo narcisismo
Il teatro non è un inedito per Gaber, ma la sua invenzione è al di là del consueto: lo sforzo è quello di costruire un recital fatto di canzoni e di prosa, che affrontano temi ben precisi e che sono differenti dal rituale del concerto classico. Nel concerto normale, spiegherà lui stesso, il pubblico accorre per ascoltare per lo più canzoni che conosce già. Nel teatro canzone, come sarà definito, gli spettatori si trovano di fronte a brani che non conoscono e che contribuiscono a una struttura complessiva che si spinge oltre il classico spettacolo d’intrattenimento.
È la formula perfetta per Gaber, che non è soltanto un cantante, dalle doti non sconfinate ma importanti, e un ottimo musicista: è soprattutto una testa pensante, un cervello che ragiona di traverso, in grado di leggere la realtà in modo abbastanza obliquo da risultare illuminante. Così, nell’ottobre del 1970, Gaber s’imbarca con Luporini che lo aiuta ai testi in un’avventura certo meno popolare, ma che contribuirà a inserirlo molto più a fondo nella coscienza italiana: dopo l’anteprima agli studi Regson di Milano, il 21 ottobre Il signor G debutta al Teatro San Rocco di Seregno, con la regia di Beppe Recchia e la direzione musicale di Giorgio Casellato.
Gaber porta il recital in tournée nei teatri del circuito regionale lombardo e poi più in là; in teatro è spesso più adirato ma non meno produttivo di quanto si riscontra su disco. Anche perché i due livelli spesso si intersecano: non smette di pubblicare album “veri”, come I borghesi del 1971, ma finisce per inserire anche le canzoni degli album all’interno dei suoi spettacoli. Nel 1972 è la volta della rappresentazione Dialogo fra un impegnato e un non so, seguito da Far finta di essere sani.
Le posizioni anche politiche di Gaber finiscono per smarcarsi sempre di più, per prendere strade del tutto autonome, inseguendo un grado di libertà che non tutti sono capaci di comprendere. Nel 1974 arriva Anche per oggi non si vola, con Il coniglio e Angeleri Giuseppe, mentre nel 1975 è fra i partecipanti della Festa del proletariato giovanile al Parco Lambro di Milano. Si prende una breve pausa creativa, portando in scena Giorgio Gaber-Recital che è una sorta di “il meglio di”.
Io se fossi Dio
Ma la testa continua a funzionare a ciclo continuo: ecco perché nel 1976 arriva Libertà obbligatoria, che attacca frontalmente le mode di qualunque genere. Polli di allevamento del 1978 celebra il definitivo distacco dal giovanilismo come tendenza obbligatoria, dalle finte lotte contro il sistema, dalla generazione del Sessantotto che ormai lo vede tra i critici più feroci. A curare orchestrazioni che si staccano dall’acustico sono Franco Battiato e Giusto Pio. Nel 1980 si registra il curioso caso dell’album Pressione bassa: Gaber lo pubblica con la Carosello, la quale però non è disposta a includere Io se fossi Dio.
I motivi sono di due ordini: il primo è la lunghezza della canzone, oltre 14 minuti, più di metà facciata di un lp classico, la seconda è l’argomento. Con una veemenza e una ferocia che ricorda l’Io so pasoliniano, Gaber attacca tutti i bersagli eccellenti, esposti, soprattutto quelli celebrati e messi sul piedistallo: si parte con obiettivi classici: il piccolo borghese, il perbenismo di maniera, la stupidità, il bigottismo. Ma poi si spinge là dove Cecco Angiolieri non era arrivato: «Io se fossi Dio maledirei per primi i giornalisti e specialmente tutti/Che certamente non sono brave persone/e dove cogli, cogli sempre bene». E fin qui, d’accordo.
Ma: «Nel regno dei cieli non vorrei ministri/né gente di partito tra le palle/Perché la politica è schifosa e fa male alla pelle». Hai voglia a volere un pensiero superficiale che renda la pelle splendida, tipo Afterhours. E dopo qualche considerazione di carattere per lo più estetico, attacca con una forza che fa sembrare le successive invettive di Beppe Grillo articoletti da educande. I democristiani untuosi, i grigi compagni del PCI, ma anche i radicali e i socialisti insinuanti, astuti e tondi. Per spiegare, anche a Platone, «Che il politico è sempre meno filosofo/E sempre più coglione».
Infine si va a toccare il sacro: «Io se fossi Dio/quel Dio di cui ho bisogno come di un miraggio/c’avrei ancora il coraggio di continuare a dire/che Aldo Moro insieme a tutta la Democrazia cristiana/è il responsabile maggiore/di vent’anni di cancrena italiana». E ancora: «Io se fossi Dio/un Dio incosciente/enormemente saggio/c’avrei anche il coraggio di andare dritto in galera/ma vorrei dire che Aldo Moro resta ancora/quella faccia che era». Si tenga presente che Moro era stato sequestrato e ucciso due anni prima dalle Brigate Rosse: Gaber accusa i terroristi, nei confronti dei quali confessa sgomento, di avere, tra le numerose colpe, fatto diventare pressoché santo un personaggio politico che santo non era affatto.
La canzone sarà pubblicata come singolo a sé stante in formato 12 pollici da una piccola etichetta, la F1 Team di Sergio De Gennaro. Nella canzone Gaber chiude dichiarando che forse, se lui fosse Dio, si ritirerebbe in campagna come ha fatto e non è un caso se le disillusioni della politica e della realtà finiscono per influenzare anche lo spettacolo seguente, Anni affollati, il quale però include anche la stessa invettiva Io se fossi Dio, che distaccata non è. A inizio anni Ottanta si cimenta con altre esperienze, che vanno dal cinema al teatro vero, fino a pubblicare un nuovo disco con Jannacci, Ja-Ga Brothers.
La mia generazione ha perso
Nel 1984 e negli anni immediatamente seguenti porta in scena Io se fossi Gaber, un nuovo spettacolo a cui fa seguito Parlami d’amore Mariù. Scrive molto per opere teatrali destinate a far recitare la moglie, Ombretta Colli, continua a curiosare in campi contigui al suo e il 25 maggio 1990 debutta al Teatro Comunale di Venezia il suo allestimento di Aspettando Godot di Samuel Beckett. La traduzione italiana è di Fruttero e Lucentini e interpreti sono lo stesso Gaber, Enzo Jannacci, Paolo Rossi e Felice Andreasi.
Poco dopo cura anche la regia dello spettacolo teatrale di Beppe Grillo Buone notizie, scritto con la collaborazione di Michele Serra. Dopo tre anni di tour con Il grigio, mette in scena un nuovo “best of”, Il teatro canzone. Dopo un ultimo spettacolo, Un’idiozia conquistata a fatica, rallenta i ritmi. Il 13 aprile 2001 Gaber pubblica un nuovo disco realizzato in studio: La mia generazione ha perso.
Ma poi c’è la vita, che prende il sopravvento su idee, considerazioni, pensieri e invettive: già segnato dal cancro che lo ucciderà, Gaber compare nel programma 125 milioni di cazzate di Adriano Celentano, insieme ad Antonio Albanese, Dario Fo ed Enzo Jannacci, per cantare con gli altri Ho visto un re.
Ha inizio poi la lavorazione del nuovo disco, di cui però Gaber non vedrà la fine. Io non mi sento italiano sarà pubblicato postumo: il primo giorno del 2003 è l’ultimo della vita del cantautore, che muore nella sua casa di campagna a Montemagno, in provincia di Lucca. Oggi la sua opera, per fortuna, è di continuo citata, studiata e rimessa in scena e innumerevoli sono gli autoproclamati eredi. Chissà che cosa ne direbbe Gaber, ora che non è più invischiato nei nostri sfaceli.