I segni dell’Apocalisse, secondo la Bibbia, sono: la bestia del mare e la bestia della terra, i sette sigilli, I sette calici, la caduta di Babilonia, comete, Cavalieri dell’Apocalisse, altre quisquilie. Ma soprattutto il quarto album de i cani. L’ora è giunta: è uscito tipo mezz’ora fa Post Mortem, il nuovo album di Niccolò Contessa, in arte i cani.

i cani traccia per traccia

Il disco più atteso del millennio (se non ci credete leggete questo articolo di Deer Waves del 2021 oppure guardate la pagina apposita sugli aggiornamenti quotidiani sul quarto album di Contessa) incomincia con un brano egocentrico e intimo: io è un elenco quasi timido, scuro e sicuramente risentito su una serie di “chi”, personaggi che hanno influito in qualche modo sulla vita dell’io narrante, sempre in modo negativo. Un flusso continuo e una sollevazione improvvisa: “Chi promette che cambia/e poi resta lo stesso“.

C’è un battito molto forte e straniante in buco nero, altra galleria di personaggi, stavolta chiamati per nome: situazioni quotidiane che si trasformano in passaggi di coscienza (“in tutto questo mi sento/mi sento/mi sento/sempre più ridicolo“). Una specie di mondo al contrario si palesa sotto i nostri occhi, mentre sonorità industrial si fanno sempre più rilevanti.

Umore un po’ più leggero quello che si incontra entrando in colpo di tosse, che racconta “tutto quello che ci vuole/per una canzone“: una serie di ispirazioni possibili e momentanee (ma anche “dieci anni anni di noia/e autocombustione“). Uno stornello stralunato che fa pensare ai Nirvana di Lithium, ma senza esplosioni eccessive.

Rimbalzano le percussioni e le sensazioni su davos, che sembra accennare in modo vago a un primo sguardo sull’attualità e sul mondo nell’ambito del disco. “Ognuno, ognuno, ognuno pensa così non va/ognuno dice: così si fa“: ma nel corso di questo brano dai suoni stratificati e dalle immagini anche forti, la riflessione sembra perdersi lungo una linea meditativa e orientaleggiante che in realtà vagheggia “un pizzico di eternità“.

C’è una costante in colpevole, cioè come ci si sente in tutte le situazioni prospettate dal brano, che evolve in una sorta di marcia inesorabile per quanto moderata e costellata di botti improvvisi.

f.c.f.t. ha invece un mood evidentemente molto epico, con sonorità post punk e un beat consistente: le cose “che bisogna fare” prendono vita sotto l’etichetta “fare come fanno tutti“, per un altro inno beffardo e tagliente. Ma per quanto ci si impegni, risulta difficile vedere Contessa che si adegua al modo di vita comune, almeno per quanto riguarda la parte musicale.

Post mortem, la title track, è un breve strumentale molto sofferto, probabilmente la musica che Contessa vorrebbe al proprio funerale (e invece gli metteranno Il posto più freddo. O magari Lexotan, ne sono certo).

La seconda parte del disco si apre con felice, il cui mood non sembra però particolarmente in linea con il titolo. Ci si paragona a un cane, opportunamente, ma anche a un kafkiano Gregor Samsa sotto il sofà, già mutato in scarafaggio: un modo di felicità un po’ curioso, mentre le tastiere disegnano nell’aria arabeschi strani. Il concetto di felicità è personale e individuale, e forse è questo che ci vuole dire il brano. Ognuno è felice in modo diverso, anche di cose che renderebbero infelici tutti gli altri.

nella parte del mondo in cui sono nato esprime alcune caratteristiche che ci riguardano da vicino, su ritmi ossessivi e idee sostanzialmente rock. Un brano che erutta e ciononostante analizza il bagaglio con cui noi occidentali abbiamo a che fare fin dalla nascita, costruendo un contesto al quale difficilmente si sfugge. Per quanto ribelli ci crediamo e per quanto alternativi vogliamo essere, con tutte le forze. Bambini che cantano e ridono sul finale, beffardi.

Più funk madre, con un bel groove di basso che sta alle spalle di un brano che parla di un abbandono che segna per sempre, mascherandolo in qualche modo e analizzando le caratteristiche biologiche della nascita. Urla abbastanza strazianti trovano posto in una canzone surreale, sicuramente punk nell’animo, coronata dall’abbandono materno.

Una certa anaffettività emerge da carbone, che invece ha un giro triste, per parlare di una relazione con tratti di disfunzionalità, per quanto ci si impegni a chiamarsi “amore”. Molto ritmata buio, che si mette a confronto con le proprie paure, suonandole forte e riempiendole di vibrazioni: del resto c’è poca luce nel mondo e forse bisogna fare qualcosa al riguardo. Perché oltre alla luce, “c’è poco amore nel mondo“.

Ed ecco a chiudere un’altra onda, per lo più per voce, chitarra e basso, con la marea che fa da accompagnamento: e sono marittime anche le immagini che lascia il brano, che sale un po’ per volta. Una ballata “in stile cani”, l’unica del disco, perché qualcosa bisogna pur regalarlo anche al pubblico, pur senza mai “fare come fanno tutti“.

Nove anni, un disco

Non un comunicato, non un post, giusto un disco messo su Spotify: prendetene e ascoltatene tutti. Del resto, ribadisco: il nuovo disco de i cani, nove anni dopo Aurora, è una sorta di stella cometa di cui si attendeva l’arrivo senza sapere se saremmo mai riusciti a vederlo durante la nostra vita. Ci sono state le uscite insieme ai Baustelle, qualche singolo tipo Fiore del 2022, qualche colonna sonora. Ma mai un album “vero”.

Valeva la pena aspettare fino a ora per questo disco? Decisamente sì. Il disco è pieno di canzoni serie, importanti, costruite con pazienza eppure capaci di impeto e di forza. Mi fa sempre molto ridere e un po’ arrabbiare la serie di artisti, soprattutto giovani e soprattutto cresciuti in ambito talent, che si vantano di aver scritto le proprie canzoni in un giorno, in una notte, in mezz’ora: Contessa ci racconta che se ci vogliono nove anni per un disco, ci devi mettere nove anni. Se ne vale la pena, la gente ti aspetta.

I cani hanno inventato l’indie/quindi ora tutti lo fanno da cani“: così sentenziava Willie Peyote in Mango e non aveva proprio tutti i torti. Però non è facile fare l’indie come lo fanno i cani: mettendo insieme riflessione e quotidianità, lavorando sui suoni ma facendo finta di lasciarli semplici, riempiendo di contenuti e soprattutto di emozioni che sanno essere confortanti e raggelanti allo stesso momento.

Ovviamente chi aspettava il bis di Questo nostro grande amore o Una cosa stupida rimarrà deluso: di amore di coppia si parla pochissimo, di relazioni pseudoadolescenziali contrastate e disperate anche meno. Non si può essere post adolescenti per sempre, questo è un fatto. E si cresce, come musicisti, come autori di testi, come persone: è giusto così. Per ascoltare le canzoni vecchie ci sono sempre gli streaming, ad nauseam.

Ora la domanda vera è: ci sarà un altro disco dopo questo? A giudicare dal titolo si direbbe di no. Ma i libri non si giudicano dalla copertina e i dischi non si giudicano dal titolo (oddio, qualche volta sì). Ma soprattutto è un esercizio da folli cercare di prevedere quello che Contessa farà. Potrebbero volerci altri nove anni. Oppure potrebbe pubblicare un altro disco domani a quest’ora. Tanto sa che lo aspetteremo e lo ascolteremo.

Genere musicale: indie pop, itpop

Iscriviti subito al canale Telegram di TRAKS 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.

Chiudi