La presenza di TRAKS al MEI di quest’anno ci ha offerto anche modo di effettuare alcune interviste a band presenti all’evento faentino (se te lo sei perso, qui c’è il reportage completo). Per esempio Lastanzadigreta, gruppo piemontese che ha mietuto allori importanti, tra cui la Targa Tenco, con il disco del 2016 Creature Selvagge.
Abbiamo rivolto qualche domanda al barbuto Jacopo Tomatis (non che sia una sorpresa, la barba: la band sembre una specie di risposta lo-fi agli ZZ Top, da questo punto di vista). Che ha risposto con grande cordialità e simpatia alle nostre domande.
Partiamo dal MEI, visto che ci ospita: intanto che cosa si prova a suonare qui?
È bello esserci perché ci siamo già venuti in varie fasi della nostra storia musicale. E ogni volta che ci siamo venuti eravamo messi un po’ meglio. La prima volta non abbiamo neanche suonato perché pioveva, per dire. Quest’anno pare che suoneremo e suoneremo anche sul palco grande. Il che ci permette di misurare che tutto sommato abbiamo lavorato bene.
Essendo noi una band veramente indipendente, nel senso che proprio non abbiamo soldi, è giusto esserci, è giusto farsi vedere in questi contesti ed è bello aver fatto questo percorso di crescita. Poi è sempre molto incasinato, con i suoi pro e i suoi contro. Ma siamo ovviamente molto felici di esserci.
Cosa pensi dell’edizione di quest’anno del MEI?
Secondo me il punto di forza del MEI è il suo essere eternamente uguale a se stesso, ma lo dico in termini positivi. Si incontrano un sacco di persone con cui magari ha occasione di parlare due o tre volte l’anno e una è il MEI di solito.
Sul fronte negativo, secondo me bisognerebbe ragionare meglio su come costruire i palchi, perché ci troviamo a suonare molto poco e non è un problema solo nostro: ne parlavamo prima con altri musicisti. Forse sarebbe meglio sviluppare un progetto per cui non ci si cannibalizza a vicenda, con molte cose contemporaneamente, soundcheck ridotti al minimo o addirittura assenti perché non c’è tempo, per poi suonare tre-quattro pezzi.
Forse, per far crescere meglio il movimento indipendente in Italia, e questa è una riflessione che condividiamo tutti quanti, nel gruppo ne abbiamo parlato più di una volta, sarebbe più sensato puntare su meno cose mettendole a fuoco meglio.
Anche per gli operatori, io sono stato al MEI tante volte anche da giornalista e alla fine vedi tantissime cose e fatichi a renderti conto… Come fai a renderti conto di un progetto in sole tre canzoni? Quando arrivi alla fine della seconda canzone realizzi che sei sul palco, di solito. E alla terza canzone è finito il tempo e poi ti rimane l’adrenalina su fino a due ore dopo.
Detto questo spazi come questi servono, secondo me dovrebbero essere più diversi dal modello televisivo proprio perché puntano a valorizzare una musica diversa.
(Jacopo non può ancora saperlo ma anche l’esibizione di quest’anno non sarà immune da inconvenienti tecnici, ma non certo per colpa della band).
Se siete qui è grazie a “Creature selvagge”, album che vi ha fruttato premi a non finire, tra cui la Targa Tenco grazie alla quale siete qui. Visto con la prospettiva di due anni in cui lo avete riproposto dal vivo, quali sono i punti più forti del disco e quali, se ce ne sono, le cose che magari fareste diversamente?
Sul disco tutti noi cinque più il nostro produttore concordiamo che ci è venuto bene. Una cosa che non è mai successa perché gli ep e i lavori precedenti che avevamo registrato e non diffuso dopo un paio di mesi ci stufavano.
Invece questo disco, a livello di suono che è un aspetto che noi curiamo molto, devo dire che ci piace! Ora lavoreremo a cose nuove ma non stravolgeremo quell’idea, perché forse abbiam trovato una nostra idea da portare avanti. Per cui non ci facciamo colpe di niente da questo punto di vista.
Il disco ha raccolto molto bene, per essere nato completamente dal nulla ed essere stato completamente autofinanziato, anche a costo di sacrifici economici. Ha raccolto una Targa Tenco da outsider perché non c’era dietro una grossa macchina discografica di nessun tipo.
La cosa negativa è che ci siamo resi conto che non basta neanche quello per suonare quanto uno vorrebbe suonare. Anche con tanti concorsi che abbiamo fatto, tutta la trafila standard che abbiamo fatto, arrivando fino al Tenco, che per chi fa questa musica è ovviamente un sogno, ecco non basta a farsi vedere perché non c’è un mercato che ha voglia di investire. C’è grande fatica nel trovare gli interlocutori giusti, non è colpa nostra, è un problema generalizzato. Vorremmo fare di più, anche se ci rendiamo conto di aver fatto molto.
Creature selvagge ha già fatto un percorso piuttosto lungo. E’ tempo di pensare a cosa verrà dopo?
Creature è uscito il 2 dicembre del 2016 e girava dal vivo come Creature selvagge da un paio di mesi, il che vuol dire che compie adesso due anni. Le canzoni erano in giro in molti casi da cinque, sei, sette anni, prima di arrivare sul disco. Quindi abbiamo voglia anche noi di fare qualcosa di nuovo.
Noi abbiamo fatto un lungo tour estivo finanziato da IMAIE, grazie al Tenco, insieme ad altre date esterne. L’ultima data la facciamo a Torino che è la nostra città (il 19 ottobre all’Off Topic, NdR) e poi chiudiamo per un po’ e credo che ci metteremo a registrare.
Abbiamo già ovviamente dei pezzi nuovi, contiamo che nel 2019 esca quest’opera seconda che è sempre la più difficile come diceva anche Caparezza… Forse se il disco non fosse andato bene e non ci avesse dato soddisfazione non ne varrebbe neanche la pena.
Perché alla fine è un impegno grosso portare avanti dei progetti del genere in cinque persone che hanno anche delle vite da gestire, dei lavori oltre la musica. Però…
Se dovessi individuare una o più caratteristiche irrinunciabili per il prossimo disco?
Sicuramente vogliamo fare un disco di canzoni, nel senso nobile del termine. Non vogliamo porci limiti su che tipo di suono possa avere e su che tipo di strumenti possiamo usare perché la nostra cifra è che dentro il pop ci può stare qualunque cosa, a livello di suono.
Però abbiamo scelto di lavorare sulla forma canzone, questo è l’obiettivo. Forse ancor più che nell’altro disco che ancora risentiva di un approccio più “prog”, noi partiamo con concerti con lunghe suite strumentali pluriarticolate.
Ma a un certo punto ci siamo stufati e ci siamo chiesti: ma perché stiamo facendo tutti questi strumentali? Facciamo delle canzoni da tre minuti, che ci vengono pure bene!
Queste sono le caratteristiche che vorremmo che avesse. Chissà se riusciremo a fare un disco che ci piacerà quanto ci è piaciuto questo, forse no, però fa lo stesso, ci si prova lo stesso…
Il vostro approccio sonoro è molto singolare per la presenza di cinque polistrumentisti quasi “tuttocampisti”, per l’assenza del basso, per la presenza di strumenti particolari, dal marimba al Farfisa al mandolino, dal glockenspiel al didjeridoo. Quanto tutta questa versatilità vi ha reso la vita semplice e quanto invece vi ha complicato le cose durante la lavorazione dei dischi?
Ci complica la vita più di quanto non ce la faciliti… E’ molto divertente, fare un live passando da uno strumento all’altro è molto faticoso ma esci proprio divertito rispetto a suonare la chitarra tutto il tempo. Però ti combina dei casini: siamo qui al MEI e noi dovremmo suonare su un palco che prevede una backline standard per un gruppo pop, tastiere, basso, batteria e amplificatori. E ovviamente noi non possiamo usare questa backline perché niente di quello che ci serve è sul palco.
D’altra parte si presta molto bene a giocare, a fare cose diverse e anche a ripensare i pezzi in modo diverso da concerto a concerto, non è noioso fare i pezzi tante volte perché cambiano ogni volta e ognuno tende a suonare uno strumento diverso ogni volta.
Suonare strumenti diversi è stimolante per chi ha studiato anni uno strumento e si trova fuori dalla comfort zone. Io ho studiato anni chitarra, ma con Lastanzadigreta suono il mandolino, quindi sono completamente fuori dalla mia comfort zone. Me ne sono creata una nuova, da autodidatta. Come per me vale per gli altri che si sono improvvisati thereministi, suonatori di marimba o di percussioni anomale.
Ogni tanto invidio queste band che arrivano mettono il jack nella chitarra e suonano. A noi non è mai successa questa cosa. Poi avendo degli strumenti organici, nel senso che “vivono”, hanno tutto un loro mantenimento… Il mio banjo-mandolino, che è degli anni Venti, ha una pelle di capra che cambia a seconda del tempo, è come il ginocchio che ti sei rotto da bambino.
“Il banjo è come il ginocchio” potrebbe essere il titolo dell’intervista… Non si può non parlare del vostro “Manifesto per la musica bambina”: vorrei capire come è nata l’iniziativa e che risposte avete avuto
Nasce un po’ per voglia di prendere in giro e un po’ con intento politico. Le due cose vanno di pari passo e non si contraddicono in nessun modo. Nasce dall’idea di capire che musica facevamo. La famosa domanda: “Vi sentite più indie o più…” Non ci sentiamo niente. Ci piace questa definizione di musica bambina.
Molti di noi lavorano con i bambini, noi abbiamo una scuola di musica a San Mauro Torinese, nell’hinterland di Torino. Abbiamo sviluppato un approccio alla canzone che è molto figlio di questo lavorare con i bambini. Che significa anche buttarsi su uno strumento senza avere le coordinate ma aver voglia di vedere cosa viene fuori.
La musica bambina è tutto questo ed è anche il tentativo di fondare una nuova canzone in Italia che parli a un pubblico più ampio possibile, che è il pubblico del pop, ovviamente. Socialmente trasversale, ma anche anagraficamente trasversale.
La canzone per bambini solitamente è incentrata su Teletubbies e quelle cose lì, e poi si ha la canzone per adulti. Con il risultato che i genitori quando portano i bambini ai concerti si rompono i coglioni dopo cinque minuti perché le canzoni sono “Eeeh quanto siamo bravi, battiamo le manine”.
No: si può fare una canzone che coinvolge i bambini anzitutto perché è suonata e può facilmente tirare dentro i bambini se lavori su un approccio didattico che valorizzi questo tipo di interazione. La musica è una cosa che si deve fare insieme, altrimenti non ha nessun senso. Non è una fricchettonata anni Settanta, ma è proprio partire da un concetto che è: la musica funziona perché c’è della gente che suona insieme e della gente che ascolta.
Nel caso dei bambini si deve tirarli dentro: noi lavoriamo molto facendo anche spettacoli per bambini, e per bambini e adulti insieme, in una sorta di spettacolo in cui i bambini possono cantare, aggiungersi in base a una serie di parametri, e i genitori solitamente stanno lì e si divertono, non li mollano lì e se ne vanno.
Questo è evidentemente anche un messaggio politico, in un momento in cui ci si pone il problema di che cosa fare e di come può la canzone dare dei messaggi anche politici. Noi pensiamo che ci sia molta più politica nel fare un discorso del genere che nel fare dieci canzoni che parlano di migranti.
Alla fine continuiamo tutti a dirci le stesse cose. Proviamo a costruire qualcosa.
Un personaggio che conoscete piuttosto bene come Paolo Enrico Archetti Maestri in una recentissima intervista con me ha proposto una “Rivoluzione Gentile” che secondo me ha qualche attinenza con il vostro approccio… Mi rendo conto che questa non è una domanda…
Non è una domanda, ma la risposta è “sì”: la nostra collaborazione con Archetti Maestri e gli Yo Yo Mundi è nata non da un calcolo ma da un incontrarsi e da un trovarsi su questioni pratiche e ideologiche. Che non sono soltanto astratte ma legate al fare musica.
Poi loro fanno una musica che è diversa dalla nostra, ma su questo ci siamo trovati. E loro sono stati, devo dire, e pubblicamente lo diciamo spesso, tra i primi a credere nel nostro progetto, a capire che il progetto aveva senso e a dirci quando ne avevamo bisogno: “Ok, andate avanti così”.
Ci hanno dato l’etichetta dopo lunghe insistenze, perché non volevano riaprirla perché Sciopero Records era ferma da tempo, e adesso credo che invece siano contenti perché l’etichetta è ripartita ed è qualcosa che ci vede protagonisti.
Tanto che quando abbiamo vinto la Targa Tenco, la persona più contenta è stata Paolo, ci ha fatto una telefonata in cui sembrava un bambino felice per questa cosa… E’ importante incontrare qualcuno con cui confrontarsi, anche che ti dica: “Questa canzone fa schifo”, cosa che è successa.
E loro da quel punto di vista hanno una storia e un approccio che sono assolutamente i nostri, ci troviamo. Non è soltanto un amicizia: poi ovviamente si mangia insieme, è sempre un grande piacere, ma c’è ancora una visione politica della canzone ma in senso buono, non nel senso di fare canzoni che “inneggino a”, ma fare canzoni che possono svegliare, ricordare, far crescere.
Parlando di collaborazioni, nei vostri sogni qualche collaborazioni che vi piacerebbe mettere in piedi?
Ogni tanto quando scriviamo facciamo il gioco: “questo pezzo chi potrebbe cantarlo?” Due personalità molto lontane ti dico: una è Nada, perché è la voce femminile che ci piace di più, su questo siamo tutti d’accordo.
L’altra è Max Pezzali. Perché per quanto lo abbiano scagato per anni è un autore che ha raccontato anche la nostra generazione, quasi tutti siamo nati negli anni Ottanta e abbiamo vissuto quello che lui raccontava. E ci farebbe piacere metterlo alla prova con un contesto che non è il suo.
Aveva fatto cose con il mondo indie ma sempre in un contesto diverso che non è quello de Lastanzadigreta. Però di nuovo, parlando di “musica bambina”, la forza delle sue canzoni è che le cantano i bambini. Nel ’93 quando è uscito Hanno ucciso l’Uomo Ragno, tutti nel mio asilo la cantavano.
La mia compagna lavora in un asilo e mi conferma che i bambini di oggi continuano a cantare Hanno ucciso l’Uomo Ragno. Quindi vuol dire che ci dev’essere qualcosa lì dentro che funziona bene e che convince anche il pubblico del futuro.