E’ un ep “lungo” quello realizzato dai Versailles: le sette tracce che compongono VRSLLS EP sono un concentrato di garage, punk, new wave (qui la nostra recensione). Abbiamo ascoltato ciò che avevano da dirci.

Potete raccontare la vostra storia?

Damiano: “I Versailles esistono dal 2005/2006. Il nome ci piaceva, unisce decadenza e corruzione alla magnificenza e allo splendore, ci calza a pennello. Poi purtroppo ce lo hanno copiato a ripetizione un po’ in tutto il mondo, bah… Non capirò mai queste dinamiche.

I nostri progetti (io con Damien*, Young Wrists e Maria Antonietta, Manu con Container 47, Key-Lectric e Scanners) non ci hanno mai permesso di investire a fondo e con continuità sui Versailles.

Da un paio d’anni però ci siamo messi in testa di fare qualcosa di più importante, più serio se vuoi. Con l’uscita di “1976-1991″ nel 2013 ci stiamo dedicando seriamente al progetto, e i risultati stanno arrivando.

Ci siamo incontrati per caso, io e Manu abitiamo nella stessa città, la musica è la nostra passione più vera, ci siamo trovati e a fasi alterne abbiamo sempre cercato di fare qualcosa assieme. Credo che sia il nostro momento migliore da quando scriviamo e suoniamo”.

Di solito, quando si incide un ep come il vostro, si guarda forse più all’estero che all’Italia. Che aspettative avete rispetto all’ep?

Damiano: “Sicuramente la vocazione è estera. Di gruppi come i nostri in Italia non ce ne sono, e lo dico senza falsa modestia. L’Italia, tranne alcune notevoli eccezioni, ha un modo di concepire, rendere e suonare il rock e tutte le sue branche che non le permetterà mai di essere competitiva all’estero.

Parlo di cura dei suoni, strumentazione, talento personale, prove costanti, resa dal vivo e presenza scenica, unione di forma estetica, immaginario e sostanza. Discorso economico, sociale e politico non ne parlo, non credo sia questa la sede.

Speriamo che l’ep smuova qualcosa, già sono arrivati feedback, ma non ci illudiamo. Andare all’estero sarebbe più una soddisfazione personale che altro. Stando qui non si costruisce molto.

Quindi posso dire che nonostante l’occhio sia oltre i confini nazionali in realtà cerchiamo di concretizzare il più possibile in Italia, anche perché come ho detto qua non vedo molti ‘competitor’ alla nostra altezza e sul nostro modo sonoro”.

Che cosa avete cercato di raccontare tramite i testi?

Manu: “I testi sono decisamente casuali, in perfetto stile punk. Infatti a livello narrativo non raccontano o parlano di quasi niente in particolare o di contestualizzato.

Sono frasi e parole in lingua inglese accostate l’una all’altra con l’intento di cercare connessioni fonetiche piuttosto che di significato. In questo siamo più vicini al cut up di William Burroughs e ai richiami nirvaniani”.

Mi incuriosisce molto “(T)rap to the E.Y.A.H.”, che trovo si stacchi per certi versi dal resto dell’ep. Come nasce?

Manu: “(T)rap to the E.Y.A.H. e’ un ibrido di generi, una fusione di 3 o 4 generi, forse anche 5. L’introduzione e’ un richiamo ai canti pellerossa tribali e a quelli mediorientali, su una base crossover a ritmica pesante.

Lo sviluppo inserisce sonorità black sabbathiane con chitarre grunge e voce indie ’90 su ritmiche funky, da cui scaturiscono improvvisamente due parti hip hop in stile new york old school sullo stesso riff .

E’ il brano con maggiore fusione di generi fatto fino a ora. Il nostro intento con i Versailles e’ stato fin dall’inizio quello di fondere ogni genere e racchiuderlo in una sola canzone, e posso dire che in questo caso ci siamo riusciti.

E’ anche il motivo per cui molte persone al primo ascolto dei nostri brani rimangono spesso disorientate, in quanto riconoscono le ispirazioni originarie ma non riescono poi ad ascoltarle nel mix finale. Inutile negare che la cosa ci abbia sempre fatto sorridere”.

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