Umberto Maria Giardini torna Moltheni per un’ultima volta: come un supereroe che ha deciso di rinunciare al suo vecchio mantello, ma che si butta in un’ultima avventura mascherata, ecco Senza eredità, disco di inediti appena uscito.
Senza eredità è frutto di una ricerca durata quasi un anno. In questo arco di tempo sono state recuperate canzoni che non avevano mai visto la luce, non rientrando in alcun disco o demo, a partire dal 1998. Tra rivisitazioni, correzioni, riadattamenti contestuali e completamenti (alcuni erano strumentali) Umberto Maria Giardini scrive un ultimo capitolo della saga Moltheni.
Moltheni traccia per traccia
Chitarra acustica e malinconie sparse attendono chi ascolta La mia libertà, il brano che apre il progetto. C’è un’aura di nostalgia tenue che si stende fin dalle prime battute del disco.
E che non cala di intensità con le tracce successive: il ballo di gala che è Ieri, anche primo singolo, è tutto impostanto su “come lo volevo io/come lo volevi tu”. E come, evidentemente, non è.
Ricordi fitti e morbidissimi quelli raccontati in Estate 1983, che svolge piano le proprie vele in direzione di un passato lontano e molto rimpianto. Gli arabeschi sonori prendono possesso di un finale triste.
Si accelera un po’ con Se puoi, ardi per me, in cui il drumming si nota davvero per la prima volta nel disco.
Invece è molto più rock Il quinto malumore, con la chitarra elettrica che ammanta di suoni una contabilità scontrosa e una relazione difficile ma piuttosto voluminosa.
Si fa inaspettatamente romantica Ester (si accostano perfino i lucchetti al cuore, un millennio prima di Moccia), con la chitarra che fornisce colori e vie d’uscita.
Ci sono intimità da esplorare all’interno di Nere geometrie paterne, con il basso in evidenza almeno quanto la memoria: la storia, narrata al femminile, è in sostanza quella di una liberazione.
Atmosfera sognante quella regalata da Spavaldo, morbidissima nell’incipit e poi più aperta, seguendo una linea melodica importante e sinuosa, con la voce di Moltheni/Giardini che si esprime in modalità molto struggente. Breve e dolce Sai mantenere un segreto?, capace di entrare in una sorta di tunnel ipnotico.
Un po’ più pop, quasi “beat”, Me di fronte a noi, che parla di vergogna, che non ha tempo da perdere ma sicuramente ha molte amarezze da smaltire. “Ogni libro che hai letto è una porta che hai aperto/nell’universo”.
Tutte quelle cose che non ho fatto in tempo a dirti chiude in oscurità il disco: appartamenti nella mente si aprono a mostrare una tristezza più soffice che angosciante, ma profonda e cupa.
Noto per la cura del dettaglio, Umberto Maria Giardini anche tornato nei panni di Moltheni lavora moltissimo di lima su canzoni che però avevano una sostanza importante già dalla partenza. Dev’essere piuttosto straniante mettere mano a qualcosa che si era scritto, pensato, provato e concepito anni, a volte decenni prima.
Da una parte si capisce perché queste canzoni fossero state scartate in principio: c’è molta più malinconia che rabbia, e il processo che portava avanti Moltheni era di cantautorato rock e sghembo, sicuramente adirato, molto più disperato di così. Paradossalmente sono canzoni più adatte a oggi: forse più mature, sicuramente più piene e sfaccettate, in fondo non così distanti dalle avventure sonore che UMG costruisce oggi, sotto una maschera diversa.
Ciò che è meno condivisibile è forse proprio il titolo: per chi segue il rock e i cantautori di oggi, l’eredità di Moltheni (ma anche di una generazione alternativa, forse un po’ strana ma sicuramente significativa, come fu quella della fine degli anni Novanta-inizio Duemila) è piuttosto presente, anche se possono essere cambiati i modi e i toni. Anche se poi a tutti (soprattutto nei media) piace un casino quando fa finta di fare il vecchio burbero e tuona contro le nuove generazioni.