Oceans on the Moon: intervista e recensione
Oceans on the Moon è il progetto musicale dei genovesi Marco Martini (basso, tastiere, programmazione) e Andrea Leone (voce, tastiere, programmazione, chitarre), nato nel 2012. Dal 2014 il duo è stato affiancato dal batterista Andrea Pellicone, che ha messo le sue abilità al servizio degli Oceans on the Moon nelle loro registrazioni.
Il suono degli Oceans on the Moon è un mix ipnotico di post-rock esplorativo combinato con elementi ritmici vitali della new wave contemporanea. Il suono è profondamente influenzato dalle fascinazioni esercitate su Marco e Andrea dagli esperimenti dei Radiohead, tra rock alternativo ed elettronica. Li abbiamo intervistati.
Sono passati cinque anni dal vostro disco precedente. Quanto è cambiata la band e quanto è cambiata la vostra musica in questo arco di tempo?
C’è sicuramente stato un cambiamento rispetto al nostro primo album, Tidal Songs, che aveva al suo interno molte influenze diverse. Col tempo la nostra ricerca stilistica si è raffinata, nel senso che abbiamo trovato una dimensione più definita per il nostro suono, più stabile, forse anche più matura, o quanto meno più “nostra”.
Quali sono state le premesse del vostro nuovo album, “II”?
Ci siamo lasciati trasportare dall’ispirazione, senza fare troppi programmi. C’era comunque l’idea di pubblicare un nuovo disco, abbiamo anche ragionato molto sul titolo perché non ne trovavamo uno pienamente soddisfacente, chiamarlo “II” (due), ci ha tolto le castagne dal fuoco. Anche per la copertina abbiamo ragionato su varie soluzioni, senza idee preconcette.
Tutto questo comunque è venuto dopo, prima sono venuti i pezzi, per i quali siamo riusciti a tenere un filo logico e una coerenza stilistica nonostante siano stati scritti nel corso di un paio d’anni abbondanti. Siamo soddisfatti della compattezza di quest’album, in cui peraltro ci sono tante cose, da riflessioni intimistiche ad altre più generali, sulla situazione del mondo di oggi.
Vorrei conoscere il vostro metodo di scrittura perché sono abbastanza convinto che le basi su cui costruiate siano quelle ritmiche, anziché quelle melodiche. Ma magari sbaglio…
Di solito partiamo da un tema, o da un giro di accordi, che ci ronza per la testa. Per aiutarci con le varie fasi della composizione, in un primo momento scriviamo delle linee ritmiche elettroniche che ci servono soprattutto come base per lavorare, ma che in alcuni casi, se ci convincono, rimangono all’interno del brano, penso per esempio alla batteria elettronica di Anonymous Visitors ed Enter Fear.
In questi casi nascono degli incroci, che a noi piacciono molto, con la batteria di Andrea Pellicone, un polistrumentista che si è unito al progetto qualche anno fa come batterista. Forse è per questo che l’aspetto ritmico ti appare preponderante, in effetti in alcuni pezzi si creano delle poliritmie tra acustico ed elettronico che danno molto carattere alle canzoni.
Si leggono molte influenze internazionali nella vostra musica, ma qual è la band che vi accomuna tutti negli ascolti?
Diciamo che ci siamo messi a suonare insieme spinti anche dalla grande passione per i Radiohead e i loro album più sperimentali, come Kid A e Amnesiac (ma non solo, abbiamo sempre adorato pezzi come 15 step o There There), questo già molto tempo prima degli Oceans on the Moon.
Avete prestato la vostra musica più volte al cinema. Ma se doveste scegliere un film al quale accompagnare i vostri brani, quale scegliereste?
Finora abbiamo collaborato con documentaristi, per progetti indipendenti di qualità che hanno ottenuto riconoscimenti in vari paesi, e siamo contenti che ciò sia avvenuto perché si tratta di persone che, come noi, ci mettono tanta passione pur non avendo alle spalle grandi finanziamenti.
Se parliamo in generale, la nostra musica forse potrebbe accompagnarsi a un thriller psicologico, con un’ambientazione autunnale o invernale; magari un giallo svedese? Chissà, su questo punto ciascuno di noi potrebbe avere un’idea diversa, si può aprire una discussione infinita…! Di sicuro ci piacerebbe avere altre esperienze in questo campo, contribuire alla sonorizzazione di un film è un’esperienza molto stimolante.
Oceans on the Moon traccia per traccia
Se si è in ricerca di oceani sulla Luna, meglio abituarsi presto all’oscurità: A Lost Generation apre il disco con evidenti influssi alternativi internazionali (dai Joy Division agli Interpol, con qualche vicinanza vocale ai FGTH, più annessi e connessi). Finale di larghe vedute.
Il lavoro ritmico è interessante e vario, con una bella linea di basso che si insinua, per Enter Fear, vocale e capace di aperture improvvise.
Più elettronica e acida, con accenni di synth pop, Anonymous Visitors, che procede in modo fluido ed equilibrato, ma anche piuttosto oscuro e con battiti irregolari.
SI arriva a metà disco con Ballad of the Sold Youth, sempre incentrata su un solidissimo lavoro della sezione ritmica, che poi si allunga come ombre in sensi melodici e armonici.
Un lavoro consistente e anche muscolare del basso contraddistingue Trojans, che poi si allarga a ventaglio soprattutto grazie all’interazione vocale.
Demetra oscilla nello spazio a lungo, prima di stabilizzarsi. Ancora il basso fornisce un appiglio solido durante un brano che non disdegna voli pindarici e psichedelici (e che come suoni fa pensare a band anglosassoni tipo gli Elbow).
Ci si muove in territori più straight e più rock con una determinata At the Walls, stoner nella partenza e più leggera (e bowieana) nel percorso.
La traccia finale è quella di Unconscious Killer, che sovrappone i livelli, mescola i toni, gioca con le voci e offre molti contrasti.
Disco di alto livello per gli Oceans on the Moon, con spunti notevoli e canzoni vaste ma sempre ben direzionate. Le combinazioni tentate dalla band sono piuttosto inconsuete e sempre molto interessanti, per un risultato che non è esagerato definire eccellente.