Tre chitarre e un basso, per un totale (approssimativo, a meno che non entrino in ballo dodici corde e facciano saltare il conto) di 22 corde a disposizione di The Unsense, sestetto proveniente dalla provincia di Varese e giunto al secondo album, Betelgeuse.

Il loro rock intenso, che prende qualcosa dalla sacca della psichedelia e qualcosa da quella della dark wave, si coniuga in questo caso in una sorta di concept album, costruito intorno alla morte di una stella, Betelgeuse appunto.

The Unsense traccia per traccia

Correndo su fili d’inquietudine spinta, One apre il disco su binari elettrici, ma anche molto oscuri, con la voce che impegna le proprie capacità (e alcuni effetti) per insinuare elementi di ambiguità.

Secondo scatto dell’album è Pandora, veloce e guidata da un drumming regolare ma robusto. Sotto si vedono i movimenti convulsi della muraglia elettrica, che lasciano spazio a qualche pausa mistica, ma che richiamano alla mente alcune sensazioni in stile Afterhours.

Creta costruisce un paesaggio all’inizio più minimale ma non meno inquietante, tra arpeggi malinconici e una voce molto forte e tagliente, che prende il dolore di petto e si lascia andare senza freni, con risultati di concreto impatto emotivo. Anemone scarlatta gira in cerchio, preda di istinti ipnotici: qualcosa dei primi Litfiba, ma anche molto della prima, seconda e terza ondata psichedelica, portata a un qualche estremo, fa mostra di sé nel brano.

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Nessuno sa dove finiremo parte da un pianissimo che minaccia però di trasformarsi gradualmente: e così succede, è inevitabile, anche se il culmine del pathos è un lavoro di squadra che si construisce un poco alla volta. La title track Betelgeuse sceglie la strada del recitato, sottolineato da attente tessiture di chitarra.

Procrastinatosi (difficile capire dove vada posto l’accento) vede un drumming essenziale ma determinato, mentre il cantato suona dissonante, per un pezzo molto calato nelle atmosfere della dark wave (anche) italiana. VA in the radio prosegue l’esplorazione del lato oscuro, con atmosfere pesanti, cariche di pessimi presagi.

Arriva poi Ferire d’immagini, che cambia aria e apre finestre su paesaggi molto più soffici, mostrando un lato piuttosto sensibile di una band che aveva virato fin qui su emozioni differenti. La chiusura è quella di Tu sei il giorno, in cui torna qualche idea psichedelica, ma più che altro in termini di sensazione, mentre il suono del brano si fa drammatico e definitivo.

Piacciono gli istinti di The Unsense, così come la capacità di costruzione complessiva dell’album. Il disco rispetta i canoni di partenza, il racconto e la storyline, ma non se ne lascia catturare in modo esagerato. La canzone rimane prevalente e c’è abbastanza energia per alimentare un disco notevole.

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