Vai alla presentazione di un disco di Vinicio Capossela e in sostanza non sai mai che cosa aspettarti. Cioè sì: ti aspetti momenti di poesia, timidezza, cultura, canzoni che saltellano, ruggiscono e mugghiano, ma di base sei preparato a essere spiazzato. La presentazione di Ballate per uomini e bestie, che esce oggi, non fa eccezione: il più singolare dei cantautori di casa nostra sceglie per location la chiesa di san Carlo al Lazzaretto a Milano, recuperata nell’Ottocento dopo secoli di degrado ma soprattutto posta al centro del Lazzaretto medesimo nel Quattrocento, cioè nel luogo di ricovero dei malati quando infuriava la celebre peste manzoniana.
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Occhi per lo più bassi e cappello con faccia da orso, Vinicio per il resto si dimostra in forma e anche dotato di una certa eleganza retrò, pur contrastata da capelli e barba in perenne disordine.
Il cantautore racconta in modo dettagliato il disco, facendo un traccia per traccia piuttosto dettagliato. Si parte dagli animali estinti di Uro, disegnati nelle ancestrali grotte di Lascaux, diciassettemila anni fa, da uomini spaventati e allo stesso tempo affascinati. Capossela parla di un “Unico buio comune” fra uomo e animale. “E’ come se ognuno di noi fosse vecchio di 17.000 anni, più 52, come nel mio caso”.
Nella Riace vuota degli ultimi mesi
Si passa alle immagini pietose de Il Povero Cristo. “Sono quelli che ci passano accanto e che non vediamo”, racconta il cantautore prima di parlare del video che accompagna la canzone, con la regia di Daniele Ciprì e che vede protagonista un Enrique Iatzoqui, già protagonista del “Vangelo secondo Matteo” di Pasolini: “Allora era giovane e bello come tutti gli eroi. Offrire il suo volto di ora significa accettare il fatto che per vivere bisogna morire e bisogna invecchiare”. Il video è stato girato a Riace, anzi “Nella Riace vuota degli ultimi mesi”, in modo simbolico e forse anche un po’ provocatorio.
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“Non ho la voce per diventare un cantante neomelodico, provo almeno a diventare un cantante neomedioevale, per stare al passo coi tempi”.
Si passa poi a La peste, per molti versi la canzone centrale del disco, e sicuramente della giornata di oggi vista la collocazione della presentazione. Ma cos’è la peste oggi? Spiega Capossela che la canzone “Prende molta terminologia del web, che per sua stessa natura contempla molti vocaboli epidemiologici come virus, influencer… La Rete non è la peste ma è il veicolo di diffusione”.
Quindi la Rete non è la peste ma sono i topi che la portano in giro, si potrebbe dire. La canzone è dedicata, ex post come spiegherà poi, a Tiziana Cantone, che nelle note definisce: “immolata sulla colonna infame dell’ultima pestilenza”.
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C’è spazio per definire meglio il contesto sonoro della canzone, come quando Vinicio afferma: “Non ho la voce per diventare un cantante neomelodico, provo almeno a diventare un cantante neomedioevale, per stare al passo coi tempi”.
Un disco di “denunzia”
Tocca poi alla Danza macabra, che ha un’ “atmosfera alla Tim Burton”. La canzone è anche l’occasione per parlare di Federico Maria Sardelli, che Capossela definisce “straordinario musicista neorinascimentale” e che al disco ha regalato lo “slogan”, dicendo che è un disco di “denunzia”, cosa che ha lasciato entusiasta il cantautore.
La danza macabra è una canzone politica, perché tuttora si fa “uso politico della paura” in maniera forse più sistematica che in passato. Vinicio rivela come il disco sia figlio di “tante letture, tante macerazioni” durate sette anni. E racconta come le canzoni hanno la “forma della ballata, che non è fatta per dire le cose in poco tempo. La ballata dura molto ma permette di raccontare compiutamente delle storie”. Ed è necessario prendersi il tempo giusto per narrare e diffondere “questa strana cosa che è la cultura”.
Capossela rivela come non ricordi la scaletta benché ci abbia messo due mesi per stenderla. E continua a raccontare di messaggi trasversali come quello de Il testamento del porco, oppure di un lascito come quello di Oscar Wilde, dell’Oscar Wilde incarcerato e sofferente, rinchiuso nella Ballata del carcere di Reading.
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C’è spazio anche per parlare della “rock band” costituita dagli animali che compongono I musicanti di Brema, arrangiata in modo “baldanzoso” da Daniele Sepe. Oppure per la storia molto dolorosa, di incontri singolari tra la grazia e l’ordine costituito, de La giraffa di Imola. Anche Di città in città (… e porta l’orso) ha per protagonista un ex re della foresta, declassato a buffone e intristito.
Non scordarti della lumaca
E se ci sono lupi mannari con il pelo verso l’interno in Le Loup Garou, va ascritta almeno parzialmente a merito di Vincenzo Mollica l’ultima canzone: in una telefonata Capossela rivelò al giornalista Rai di aver messo mano a un disco che riguardava il rapporto tra uomini e animali e l’ineffabile Mollica disse: “Non scordarti della lumaca”. E Capossela non è uno che dimentica, soprattutto le lumache.
Poi è tempo di suonare: entrano gli altri musici, vestiti in costume settecentesco con tricorni e abiti neri, un po’ monatti e un po’ pirati, e si allineano ai fianchi di Capossela.
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Si parte così dalle Nuove tentazioni di sant’Antonio, che riempie la pianta ottagonale della chiesa di suoni piuttosto selvaggi, con la ormai abituale commistione di “alto” e di popolare che fa di Capossela un artista unico nel suo genere.
La seconda è proprio I musicanti di Brema, favolistica e “caposselliana” come si conviene, con Vinicio al pianoforte e all’imitazione dei versi degli animali in questione, con qualche “chicchiricchì” che si alza di tanto in tanto.
“Sono travolto dai trapper”
L’eleganza si scompone un po’, ma poco male: ecco la Ballata del carcere di Reading, momento malinconico in cui il dolore profondo del poeta è sottolineato dal piano ma anche da percussioni che frustano più che colpire. “Ognuno uccide quel che ama” è il verso centrale, della ballata e della canzone.
Il banco degli imputati
E se il musicista è del tutto sicuro di sé quando è di fronte o dietro i propri strumenti, risponde alle domande dei giornalisti con atteggiamento molto più timido e sperso, partendo con un significativo: “Sono pronto a salire sul banco degli imputati”. Peraltro le domande sono poche e approfondiscono per lo più quanto era già stato espresso, come quando si parla de La peste e del fenomeno del linciaggio via web, e della mancanza di senso etico di chi guarda certo tipo di video su internet.
Ultimo guizzo lo regala una risposta sull’effettiva “orecchiabilità” delle canzoni che scrive. Dopo aver rivelato che ha rinunciato a partecipare a certe manifestazioni soprattutto televisive (peccato perché il cappello con la faccia dell’orso era perfetto per X Factor) confessa, con scoramento: “Sono travolto dai trapper”.
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E poi via con Il povero Cristo, che lo rivede dietro la chitarra, cappellone quasi hamish in testa, voce poco più che sussurrata e calda, per un pezzo che suona quasi springsteeniano. Forse tutto un po’ meno spiazzante di quanto non fosse nelle presentazioni dei dischi precedenti. Ma è impossibile uscire senza essere un po’ toccati e un po’ cambiati da un incontro con il bestiario di Capossela.
Testo e foto di Fabio Alcini