Una copertina non proprio serenissima, e tutto sommato un disco altrettanto: William Fitzsimmons pubblica Mission Bell. Il cantautore e produttore, del resto, ha scritto le canzoni che sono finite sull’album nel mezzo di una dolorosa separazione dalla moglie.
Le regole dell’album sono piuttosto semplici: dieci canzoni ispirate dalla nobile tradizione del songwriting americano, peraltro bagnate nelle acque, e presumibilmente nel whisky, di Nashville, dove il disco è stato realizzato, con l’aiuto del produttore Adam Landry.
William Fitzsimmons traccia per traccia
Si parte dalle volute morbide di Second Hand Smoke, che costruisce su una base folk per offrire spunti che vanno dal pop al cantautorale.
Molto delicata e affidata principalmente alla voce e a una chitarra acustica molto sommessa ecco poi Distant Lovers, che può richiamare alla mente numerosi cantautori acustici di svariate generazioni.
17+Forever parla di promesse mancate anche prima di iniziare a cantare, vestendo panni profondamente malinconici e nostalgici, con gli archi a sottolineare.
Si procede in modo ritmato all’interno di Angela, in cui gli strumenti a corde tessono un tappeto piuttosto fitto, con risonanze che arrivano lontano.
In the light, a dispetto del titolo luminoso, continua a muoversi fra le ombre, spesso doppiato da voce femminile che conferisce un po’ più di tridimensionalità al suono.
Segue poi Lovely che si muove sempre in modo gentile ma camminando un po’ sulle nuvole, accompagnata da un arpeggio continuo e con echi di violini sullo sfondo.
Leggeri tocchi di tastiere per Never Really Mine, che gira anche su una buona attività del basso.
Leave Her ha un ingresso un po’ più enfatico della media dell’album, e fa capire fin da subito come le questioni affrontate siano serie.
Qualche briciola di speranza sembra raccogliersi intorno a Wait for me, con qualche risonanza elettrica in più.
Ovvio che l’ottimismo sia di breve durata: Afterlife è funerea quanto è intima, con fantasmi sonori che si muovono in lontananza e gli archi a recitare parti dolenti. Ma cresce il risentimento che trova schiette vie rock, che esplodono brevemente nel finale.
Il pregio principale del disco di William Fitzsimmons è quello di narrare un dolore vero, profondo senza risultare mai smielato e senza perdere di vista una compattezza sonora figlia di scelte tese più a scremare che ad aggiungere.
Ne risulta un disco sofferto senza essere mai faticoso, che procede con semplicità e con idee molto chiare. Esempio perfetto di come sia davvero possibile, e spesso consigliabile, cercare di trasformare il proprio disagio in qualcosa che suoni il più artistico possibile.